Dario Argento – L’uccello dalle piume di cristallo

L‘uccello dalle piume di cristallo è il film che, nel 1970, segna l’esordio dietro la macchina da presa del critico cinematografico e sceneggiatore Dario Argento. È, neanche a dirlo, un passaggio dirompente nel panorama italiano: da più parti si grida al “nuovo Hitchcock” (o al “Godard del giallo”), ma è un fraintendimento di comodo. La verità è che al trentenne cineasta interessa esplorare lo spettro delle suggestioni fornite dal cinema popolare di Bava, Freda e Fulci, contaminandole con il coevo filmmaking americano di genere. In questo senso, L’uccello dalle piume di cristallo mostra una padronanza impressionante delle regole del gioco e, soprattutto, una voglia di ridefinirle che porterà Argento e il suo cinema a configurarsi come esperienza paradigmatica. Non si contano, infatti, il numero di seguaci più o meno improbabili generati già a partire da questo primo capitolo della “trilogia zoofila” (proseguita con Quattro mosche di velluto grigio e completata da Il gatto a nove code). La differenza, però, la fa il talento di Argento nell’affrescare un inferno di perversioni e traumi rimossi puntando tutto sull’estetica della messa in scena: cromie espressioniste, movimenti di macchina peculiari (la proverbiale soggettiva dell’assassino) e l’attenzione al sonoro (distorto, rumoristico, “espressivo”), inaugurano un nuovo concetto di spazio filmico come luogo di incubo, in cui i topos caratteristici del genere convivono con la rappresentazione sadica della morte e, soprattutto, una riflessione sull’ambiguità dello sguardo.

È questo, infatti, lo snodo fondamentale de L’uccello dalle piume di cristallo, ed uno dei motivi ricorrenti delle successive pellicole argentiane: l’ingannevolezza della percezione. Sam Dalmas, scrittore americano in trasferta a Roma per superare una fase di blocco creativo, assiste per caso ad un tentato omicidio, quello di Monica Ranieri, nella galleria d’arte che la donna gestisce assieme al marito. Ricostruendo la scena con il commissario Morosini, Dalmas mostra frustrazione per un piccolo particolare che sa di aver visto ma che non riesce a ricordare. Tutta l’indagine successiva (l’aggressione alla Ranieri è solo l’ultima di un maniaco che si diletta ad affettare giovani e belle donne sole) sarà dunque un tentativo di sopperire a quel frammento di sguardo che sembra irrimediabilmente perduto e che, invece, tornerà a galla giusto alla fine, a mo’ di tassello conclusivo della “detection”.

Con L’uccello dalle piume di cristallo, insomma, Argento battezza la sua galleria di maniaci nerovestiti, belle donne amorali, investigatori improvvisati e, soprattutto, dà sfogo a quell’attenzione feticista per il rituale omicida che Profondo rosso finalizzerà in chiave “classica” e Suspiria in direzione fantastica. Esordio folgorante.

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