Joe Wright – Anna Karenina

Ad Hollywood, si sa, piace tornare spesso sul luogo del delitto – soprattutto quando la “location” in questione è un classicone impenitente, di quelli che tempi e mode non riescono a scalfire. Un po’ per la cronica crisi di idee, un po’ perché, gira e rigira, le storie si nutrono sempre degli stessi elementi (perché inventarne di nuove quando puoi andare alle fonti?). Questo di Joe Wright è il dodicesimo adattamento cinematografico dell’Anna Karenina (1877) di Lev Tolstoj. Inutile discutere se sia il più bello o meno, certo è il più originale, forte di un impeto figurativo che scongela le passioni ottocentesche dei suoi eroi ed eroine e, soprattutto nella prima metà, le consegna ad un nuovo brio.

La vicenda della giovane e bellissima Anna, sposata ad un ministro dello Zar, Alexei, e della sua passione per il conte Vronski, è raccontata con rispetto ed aderenza al testo, ma esasperandone la dimensione teatrale. Lo spazio del set è una quinta, e la macchina da presa viaggia tra volti e corpi abilmente coreografati disegnando traiettorie fantasiose, mentre le scene letteralmente si compongono sotto il suo obiettivo. Un valzer illuminato da una luce irreale, fiabesca, insomma, condotto con leggerezza e senso del ritmo per buona parte della prima ora. Poi, però, la tensione cala, un po’ di estro viene meno ed emergono i limiti di un’operazione puramente estetica, che rinuncia cioè ad ogni pretesa metanarrativa per accontentarsi di mettere in scena il dramma, sebbene in modo surreale. Peccato, perché Wright, rispetto ad Orgoglio e pregiudizio ed Espiazione (guarda caso, sempre con Keira Knightley), stavolta aveva trovato la chiave giusta, meno impersonale, per rendere il fasto e le miserie del “grande mondo antico”.

Si consuma, così, il resto della parabola di Anna: la passione per Vronski fiaccata da una gelosia lacerante, il disprezzo delle corti aristocratiche, il tragico epilogo – il tutto intrecciato alla storia di Levi, innamorato di Kitty, sorella della cognata di Anna, Dolly, e rischiarato dal farsesco marito di quest’ultima, Stiva, fedifrago recidivo. È per cercare di convincere Dolly a riportare suo fratello a casa che Anna aveva intrapreso il viaggio da San Pietroburgo a Mosca: sul treno, l’incontro fatale con Vronski. Il suicidio finale, sotto le rotaie, è perciò la chiusura del cerchio, una ruota vorticosa di passioni infinite di cui Wright è bravo ad inscenare l’intensità e la famelicità, stilizzandole in figurazioni archetipiche. Il regista inglese, insomma, aveva colto il senso profondo dell’operazione: inscenare il teatro della vita. Peccato che non sia riuscito a dare, a questo palco, la giusta profondità, la meritata universalità.

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