Veronica Falls – Waiting for something to happen

«Are you waiting for something to happen?», «stai aspettando che accada qualcosa?», domandano i Veronica Falls nella traccia omonima di questo loro secondo album. E vien voglia di rispondergli che sì, in effetti stiamo aspettando che accada qualcosa. Stiamo aspettando un guizzo nuovo, un’idea originale, uno spunto che ci induca a dire che la nuova prova della band inglese non è il solito esercizio passatista di nostalgia e zuccheri adolescenziali. E invece niente: fino alla tredicesima traccia è tutto un citare, un chiamare in causa, un riecheggiare. Cosa? Difficile da dire. In Waiting for something to happen, gli anni ’80 più “jungly” convivono con armonie Sixties e certe opache lucentezze dei ’90, in una giostra infinita, in un mix finto naïf che vuole rappresentare tutto e alla fine smarrisce inevitabilmente anche se stesso. Roxanne Clifford, James Hoare, Marion Herbain e Patrick Doyle sono pure bravi, scrivono pezzi divertenti con una facilità irrisoria, ma la loro è la vita delle falene: durano un battito di ciglia, poi finiscono nel dimenticatoio, in quell’angolino della “coscienza musicale” di ciascuno popolato da effimere colonne sonore di occasionali gioie prepuberali. Nulla, insomma.

In questo mondo chiuso, asfittico, eppure impalpabile, le batterie non scandiscono nessun tempo, i bassi e le chitarre non hanno dinamica e le voci non evocano nulla se non la rappresentazione di un’emozione. Le iterazioni di Tell me, la filastrocca grungy di Shooting star, la ninna-nanna di Daniel, il Chris Isaak mescolato ai Joy Division di If you still want me, il folk-pop di Everybody’s changing e gli U2 virati Jesus and Mary Chain di Last conversation, stanno lì a fissarti con un sorriso agrodolce eternamente schiuso, quasi incerti se continuare la recita o smettere e passare ad altro. Buried alive, My heart beats e Teenage hanno grazia, certo, ma davvero tutto quello che un gruppo di ventenni può e deve fare con una chitarra in mano oggi è scimmiottare Smiths e My Bloody Valentine senza un briciolo di ironia, senza un minimo di problematizzazione?

Waiting for something to happen, lo dicevamo prima, non è un disco terribile, no, ma solo perché testardamente attaccato a certi cliché ormai “intoccabili”, entrati a far parte dell’immaginario musicale di ciascuno. Come per il suo predecessore, l’omonimo debutto del 2011 (di cui, peraltro, è il calco fedele), la colpa di Waiting for something to happen è nel suo non osare mai, nel non prendere mai alcun rischio, nell’accontentarsi di fingere un’innocenza che non può e non deve possedere. Esattamente come quelli che passano la loro vita «aspettando che accada qualcosa»…

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