Virginia Woolf – Al faro

Per leggere Gita al faro (o Al faro, a seconda della traduzione adottata), bisogna concedergli tutto il tempo di cui ha bisogno. È un romanzo silenzioso, fatto di pensieri. All’inizio è come essere immersi nella nebbia. Ci si guarda intorno, cercando di riconoscere qualcosa attraverso quel velo opaco che sfoca ogni contorno. Si vuole mettere ordine a quel mare di parole, riconoscendo di volta in volta la sorgente cui appartengono. Poi, lentamente, cambia qualcosa. Ci si lascia trasportare, perché è proprio lì, in quel continuo fluire delle coscienze, che si sta svolgendo la storia.

I pesonaggi emergono dallo sfondo. Se ne distinguono le figure. Al centro c’è, bellissima, la signora Ramsay. Una donna elegante, innamorata del marito, protettiva con gli otto figli, gentile con gli ospiti eppure terribilmente distante; bloccata in una forma da cui riesce a fuggire nei pochi momenti di silenzio, ritirandosi in se stessa, in un «nucleo di oscurità in forma di cuneo […] invisibile agli altri». A lei spetta il compito di fondere, anche solo per il tempo di una cena, le altre solitudini. Quelle distanze e quei silenzi dei personaggi che le camminano accanto, nell’attesa di una gita al faro, che sarà realizzata soltanto dieci anni dopo.

La Woolf segue dolcemente il filo di ogni pensiero. Gli dà spazio, poi lo abbandona, lo intreccia con altri, lo riprende, lo avvolge su se stesso e di nuovo lo interrompe. Ricostruisce in questo modo le figure della sua infanzia. Il padre, la madre, i suoi fratelli. La scrittura diventa un modo per elaborare la loro perdita, per sottrarli all’usura del tempo. Di quel tempo che consuma tutto, inesorabilmente. E lo si sente parlare nel silenzio buio e addormentato della casa abbandonata. I mobili, la carta da parati, i libri ne raccontano il fluire. Soltanto la luce del faro, costante nella sua intermittenza, continua a visitare quelle stanze vuote; ma è una sicurezza fragile, vista da vicino, anche quella «torre argentea, nebulosa con un occhio giallo» sembra diversa. O forse sono cambiati soltanto gli occhi che la guardano.

La Woolf è capace di raggiungere il cuore delle cose, di farle parlare. Tutto prende vita, trasuda sentimento, anche quando si tratta della morte. Lo stesso romanzo a volte sembra fluttuare, quasi rischiasse di svanire, altre volte ondeggiare, come in un lento avanzare ed arretrare. Sembra avere un proprio ritmo vitale. Quella della Woolf è una scrittura che diventa respiro. Una scrittura che respira come il mare, e chi legge non può che assecondarla.

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