Antonin Artaud – La razza degli uomini perduti

Tra i protagonisti della cultura del ‘900, Antonin Artaud (1896 – 1948) è certamente tra i più brillanti e sottovalutati. Nella sua parabola esistenziale ed artistica, si possono scorgere alcuni snodi intellettuali, alcune inquietudini cruciali del secolo appena trascorso: la riflessione sull’arte e il linguaggio, la fascinazione per il mondo orientale, la persecuzione di un’ideale artistico “multimediale” (attraverso la teorizzazione del “teatro della crudeltà”) e, insieme, la solitudine e la follia. La razza degli uomini perduti è un libricino che riunisce sei prose (inedite in Italia) che coprono tre momenti distinti della vita di Artaud. Gli anni giovanili sono immortalati dai racconti Il sorvegliante di collegio dagli occhiali azzurri e La stupefacente avventura del povero musicista, scritti tra il 1921 e il 1923, in bilico tra autobiografia, simbolismo e mito (il secondo riprende la leggenda giapponese di Mimi-Nashi-Hoichi). Il villaggio dei Lama morti (1932) e La razza degli uomini perduti (1937), invece, sono due articoli apparsi su «Voilà», la rivista fondata da Paule Thévenin (poi curatrice delle sue opere complete per Gallimard): il primo riporta l’esperienza di un fotografo, Perckhammer, alle prese con il rito funebre di un Lama in un villaggio della Cina, il secondo, invece, si basa sull’esperienza diretta di Artaud in mezzo ai Tarahumara, una tribù messicana resistente alla modernizzazione e al progresso e dedita al consumo di peyote.

Gli ultimi due testi, invece – Dai quaderni di Rodez e Dai quaderni del ritorno a Parigi – riportano il trauma di Artaud seguito al ricovero in manicomio (sin da giovanissimo, il commediografo soffrì di nervi). In questi frammenti (datati tra il ’45 e il ’48), contesi tra la confessione, il monologo e l’invettiva, emerge il nuovo corso esistenziale di Artaud, all’insegna di un rifiuto della tematica religiosa e di un’attenzione al corpo, anche nei suoi tratti più sgradevoli. L’edizione di Via del Vento (accompagnata da un breve ma incisivo saggio di Pasquale Di Palmo) ha certo il pregio di fornire una panoramica (seppur rapidissima) su una vicenda artistica e umana fondamentale, cogliendone i tratti salienti. Nel complesso, il volumetto risente di una certa frammentarietà, di una certa marginalità; ad ogni modo, può essere un buon pretesto per accostarsi ai vari Eliogabalo (1934), Il teatro e il suo doppio (1938), Al paese dei Tarahumara (1936), I cenci (1964), passaggi fondamentali di un percorso indissolubilmente legato alla temperie del “secolo breve”.

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