Radiohead – Pablo honey

Il percorso di una delle più grandi band degli anni Zero comincia così, un po’ in sordina, con questo Pablo honey che, seppur nobilitato dall’inno generazionale Creep, certo non lasciava presagire ciò che poi, effettivamente, sarebbe stato. Una parabola artistica, quella dei Radiohead, che, con dischi come Ok computer (1998), Kid A (2000) e Amnesiac (2001), ha ridefinito il confine tra rock e avanguardia, tra melodismo e sperimentazione, interpretando alla perfezione umori e contraddizioni di un’intera epoca. Tutto nasce qui, però, da queste dodici ballate contese tra tradizione brit e aperture al coevo indie americano, magari non originalissime, ma ricche di spunti intriganti e certo non convenzionali.

Psichedeliche, ruvide, eppure malinconiche, le partiture di Yorke e soci indulgono a feroci distorsioni chitarristiche, che sospingono tanto le bellicose How do you? e Anyone can play guitar (memore dei Replacements) che le più “collegiali” Stop whispering (figlioccia dei R.E.M.) e Prove yourself. Il power-pop di Ripcord e la bella grinta di Vegetable pagano tributo agli Smiths, ma in maniera intelligente, senza cedere troppo allo stereotipo, così come il crescendo e i volteggi chitarristici di Lurgee ammiccano alla psichedelia dei ’60, ma senza darlo troppo a vedere. Quella del quintetto oxfordiano sembra un’operazione banalmente istintiva, ma in realtà è mediata da una buona dose di consapevolezza, che congela (un po’) l’impatto fisico della musica e stabilisce connessioni stilistiche di pregevole fattura (come in You, che stende un ponte tra gli shoegazer e Jeff Buckley).

E poi c’è Creep, manifesto di solitudine, smarrimento e alienazione di rara intensità, che tramuta l’astenia di una batteria e di un picking chitarristico sottotono in un ringhio sconsolato ed epico (già che ci siamo, un po’ U2). È, questo, il pezzo che proietta, di fatto, la musica dei Radiohead nel millennio successivo, brillantemente presagito da Ok computer. Rispetto al suo seguito, The bends (1995, quello di Street spirit, Fake plastic trees e Bullet proof), il debutto della band inglese ha forse meno canzoni degne di nota, ma, se non più idee, nel complesso più brillantezza, ed un pizzico di naiveté che solleva i pezzi dal rischio di suonare eccessivamente asfittici, aridi. Il buon primo capitolo di un’avventura tra le più entusiasmanti della storia del rock.

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