Babsi Jones – Sappiano le mie parole di sangue

Sappiano le mie parole di sangue, primo “romanzo” della reporter e scrittrice Babsi Jones, è un groppo in gola.

Riconosciuto come caso letterario già nel periodo immediatamente successivo alla sua uscita, tanto che viene subito identificato da Wu Ming 1 come esperimento narrativo inseribile nella nebulosa del “New Italian Epic”, il lavoro della Jones è un esempio di quella che oggi si definisce “non-fiction novel” e una toccante prova di meta scrittura.

Inviata nei Balcani per raccontare lo scempio del conflitto tra Kosovo e Serbia, Babsi Jones ha rigurgitato il suo reportage e lo ha fatto dipingendo disordinatamente i contorni di un romanzo sporco ma a suo modo coerente, nato dall’esigenza di ri-amalgamare in un impasto sanguigno l’esperienza e la scrittura. Senza mai abbandonare le profondità dello sguardo soggettivo, imprescindibile per sondare la realtà e giungere fino al suo nucleo viscerale, la giornalista offre la propria testimonianza partigiana, si posiziona dalla parte sbagliata della Storia – quella avversa alle operazioni “umanitarie” dell’ONU – e sputa sul concetto di “verità” imbastendo una riflessione forsennata sul limite e sul valore della parola.

Cavalca la soglia che divide il dicibile dall’inenarrabile Babsi Jones, in un’opera precaria che fa emergere la costante tentazione dell’autrice/protagonista/soggetto narrante a gettare la spugna, a dichiarare chiusa e quindi persa la sfida del racconto. Ma la rinuncia non giunge, lo sforzo continua imperterrito e rimane ferma nella memoria intratestuale l’epigrafe tratta dall’Amleto di Shakespeare che, tradendo l’origine del tiolo scelto dalla scrittrice per il suo romanzo, chiosa con: «Da ora i miei pensieri sappiano di sangue, o non siano più niente».

La parola, tanto quanto il pensiero per Amleto, ha senso solo se impatta con la realtà in maniera traumatica e dissanguante, a costo di uscirne rotta e contraddittoria, ma pur sempre capace di testimoniare. In questo senso, la scrittura di Babsi Jones riesce nell’intento e si dimostra capace di dar voce al fluttuare impietoso del sangue stesso quando, con una disarmante sensibilità tutta femminile, descrive all’unisono lo scorrere del mestruo mensile e quello del plasma di una vittima di guerra: «Entrambi zitti: il sangue non ha suono. Né il mio, né il suo. Stilla, scende, cola: il sangue del cadavere che si coagula, il sangue del taglio aperto in mezzo alle mie gambe vive».

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