Sigur Rós – Valtari

Arriva sempre il momento della stanchezza, anche per le band. Come agli atleti, pure ai musicisti capita di tirare un po’ il fiato, rilassare i muscoli, magari perché fiaccati da una lunga e faticosa successione belle prove artistiche. Ed ecco dunque che vengono fuori album come Valtari. Che proprio terribile non è, ma suona decisamente al di sotto degli standard dei Sigur Rós. Il fatto che con Ágætis byrjun (1999), () (2002), Takk (2005) e Með suð Í eyrum við spilum endalaust (2008) gli islandesi ci avessero abituato benissimo, certo non aiuta il giudizio complessivo su quest’ultima opera, ma tant’è. «Una valanga alla moviola»: così Jónsi e soci avevano descritto il full-lenght qualche mese fa in un’intervista. A giudicare dall’ascolto, alludevano probabilmente alla componente ambient, maggiore rispetto al recente passato. Ma se è vero che la dinamica è effettivamente in slow-motion, a latitare è l’impeto: le otto tracce di Valtari suonano scolastiche, manierate. Abili come pochi ad evocare l’estasi pànica, il “sentimento oceanico”, i quattro stavolta si fermano alla buccia, luccicante ed invitante come sempre: il frutto, però, è insapore, inodore, incolore.

L’impressione complessiva è quella di un (tentato) ritorno alle origini. (), con le sue liquide sospensioni atmosferiche, sembra aver fatto da stella polare ed indicato la rotta, aiutato anche dall’intimismo lieve di Takk. Gli arrangiamenti, dunque, prediligono l’understatement, con sintetizzatori, loop, sample, pianoforti ed archi ad intessere delicate trame sonore sulle quali si levano i vocalizzi carichi di pathos del bandleader. Per quanto ben costruite, però, Ég anda, Ekki múkk e Rembihnútur (dal bel finale arioso) hanno la freschezza di b-side – di classe, ma pur sempre di b-side. Stavolta il mix di elettronica minimalista e sfumature classicheggianti non conquista: persino la straziante liturgia di Dauðalogn suona scontata, al pari della ninna nanna di Varðeldur o della tenera elegia di Fjögur píanó. L’unico sussulto, almeno sul piano del sound, lo regala Varúð, che sfodera un crescendo epico e marziale, ma anche qui la sensazione è di scarsa lucidità. Il soundscape abbozzato dalla title-track, poi, è un banale esercizio di stile post-ambient.

Il sesto lavoro di studio della formazione di Reykjavík è un’opera bloccata, quasi ossessionata nel suo tentativo di suggerire un’estasi che, proprio perché chiamata a gran voce, non può arrivare. Inutile dire che un giudizio negativo su un album non cancella quanto di buono Jónsi & co. hanno fatto nel corso di un quindicennio, tuttavia Valtari è un piccolo campanello d’allarme, da non sottovalutare.

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