Xiu Xiu – Always

Ha attraversato un decennio esatto, Jamie Stewart. E lo ha fatto con coerenza, coraggio, radicalità di vedute. La sua musica, sin dagli esordi (Knife play, del 2002), di compromessi non ne ha accettati, scegliendo la strada più impervia, quella della sperimentazione, cercando (e trovando) l’anello di congiunzione tra post-punk, avanguardia e un sano spirito indie. Nessun manierismo, nessun eccesso formale: solo il desiderio, per l’americano e i suoi (in origine, Cory McCullogh, Yvonne Chen e Lauren Andrews), di calare in architetture composite e astratte al tempo stesso una Weltanschauung tragica, per affrescare in chiave postmoderna un calvario esistenziale di proporzioni spaventose.

Il percorso della formazione americana è stato, dicevamo, sempre congruente, nonostante cambi di line-up ed aperture a sonorità che, agli inizi, parevano inimmaginabili. Una piccola ma significativa svolta ci fu, ad esempio, con Dear God, I hate myself (2010), il quale, in concomitanza con l’ingresso nella band di Angela Seo (subentrata a Caralee McElroy, nel combo dal 2006 per The air force), introdusse elementi pesantemente sintetici nella sua scrittura. Nonostante le dinamiche per certi versi più pop, nessuno gridò al tradimento. Del resto, non ce ne sarebbe stata ragione, visto che l’approccio di fondo era rimasto comunque invariato. E di abiura non si può parlare neppure per Always, il quale consolida questo percorso recentemente intrapreso.

L’asse compositivo s’è spostato verso un impasto di new-wave elettronica, industrial, IDM e folk, ma il risultato, nonostante un’orecchiabilità a tratti evidente, ha comunque del paradossale. Per essere più “cantabili”, le tracce sono più “cantabili”, ma in esse permane inalterata una certa tensione all’astrattezza, alla destrutturazione/scomposizione. Partendo da una materia ormai abusata (il revival electro anni ’80), Stewart è riuscito a cavarne un’opera personale, che dietro le apparenze di una pop-wave “facile” cela un nugolo di nevrosi private, spasmi sociopolitici e spunti metalinguistici, ovverosia quegli stessi elementi di cui tutta l’arte degli Xiu Xiu si è sempre nutrita.

Non inganni la confezione, insomma: Always è, in fondo, parente stretto dei capolavori A promise (2002) e La Forêt (2005), o del più recente (e comunque splendido) Women as lovers (2008), che di quella formidabile doppietta rappresenta una delle continuazioni più riuscite. Il trittico d’apertura Hi, Joey’s song e Beauty towne si districa tra sporcizie digitali, coretti liturgici, drumming scattanti e synth ariosi, definendo subito le coordinate del disco. L’umore tende al tragico, e le tensioni accumulate si sfogano nell’industrial à la Suicide di I love abortion (ispirata alla vicenda di un’amica di Jamie, rimasta incinta troppo presto) o nell’impeto nickcaveiano di Chimneys’ alfire (Mickensian suicide), bilanciate dall’elegia pianistica di The oldness, in obbedienza a quella dialettica chiaroscurale che contraddistingue tutto il lavoro. Il folk dilatato di Factory girl (una sorta d’incrocio tra il lirismo di Tim Buckley e l’ombrosità di uno Scott Walker) è dedicato alle migranti cinesi costrette a prostituirsi. L’orrore della guerra fa irruzione in Gul maudin, racconto dell’assassinio di un ragazzino afgano perpetrato da un gruppo di soldati americani così, semplicemente perché potevano, mentre è l’intolleranza la protagonista del dance-pop di Smear the Queen, incentrata sul pestaggio di un ragazzo gay.

In tutti questi casi (e nella già citata Joey’s Song, che Jamie dedica al fratello, vittima degli strascichi di una tragedia familiare), al tono perentorio del “j’accuse” il frontman preferisce quello della preghiera consolatrice. Privato e politico si mescolano dunque senza soluzione di continuità in Always, tenuti assieme da una passionalità quasi religiosa. A conferma di un’ossessione nascosta, che s’agita costantemente sottopelle per poi esplodere improvvisa, c’è Black drum machine, che tesse insieme arpeggi minimali, orchestrazioni melodrammatiche, elettronica, silenzi e il crooning melodrammatico del bandleader, dando vita ad una scenografia spettrale, degna del miglior Walker, che culmina in un angosciato urlo digitale.

Prodotto da Greg Saunier dei Deerhoof (responsabile anche della batteria e di alcune vocals) e mixato da John Congleton (Antony and the Johnsons, Marylin Manson, The Roots), Always è un album che testimonia di una creatività tutt’altro che sopita. Difficile trovare un modo migliore per festeggiare dieci anni di (preziosissima) attività.

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