S.C.U.M. – Again Into Eyes

Sperimentazione e pop. Due parole che non sempre stanno bene assieme, per un incrocio che genera bizzarri cortocircuiti travestiti talvolta da guizzi brillanti e proteiformi ed altre da insipidi patchwork privi di reale consistenza, all’insegna di uno squilibrio che finisce con lo scontentare un po’ tutti. Esattamente come nel caso degli S.C.U.M.. L’album di debutto del quartetto londinese di carne al fuoco ne mette tanta: post-punk, dark-wave, brit-rock, shoegaze, ambient e dream-pop. Chitarre elettriche sature, manipolate, distorte, synth avvolgenti, galoppate della sezione ritmica, un piglio di volta in volta oscuro, languido, sbarazzino, algido. Art-rock per palati post-moderni, insomma, per chi sogna la crasi impossibile tra gli Suede, i Joy Division, il gotico dei Christian Death, il krautrock, i My Bloody Valentine e Brian Eno. Il difetto di “Again Into Eyes” però è nel manico. Riconosciute le buone intenzioni, ad un ascolto attento, più profondo, capace di mettere da parte la sorpresa che inevitabilmente tale miscellanea genera al primo impatto, le canzoni di Thomas Cohen e soci si dimostrano sì spettacolari sotto il profilo della dinamica (suoni stratificati ed insaspriti da una produzione furbissima) ma scarsamente coinvolgenti sul piano emotivo. L’atteggiamento, insomma, è di chi canta cose in cui non crede (perché non le sente realmente proprie), ma lo fa benissimo.

È un disco pieno di contraddizioni “Again Into Eyes”. Dentro ci sono motivetti da glam britannico (Amber Hands, scuola ButlerAnderson), ma anche esercizi post-punk virati shoegaze (Faith Unfold, tra U2, Interpol e Kevin Shields), isteriche meditazioni provenienti dagli spazi profondi (Requiem, arrangiata per fluttuazioni elettroniche, rumorismi e piano) ed affreschi dark/gothic (la spettrale danza tribale di Cast Into Season e la joydivisioniana Days Untrue), minimalismi teutonici in odore di glaciali tenebre synth-pop (Sentinal Bloom) e ballad melodrammatiche nel solco di Anderson (Paris), a cui la voce di Cohen si rifà in modo impressionante. C’è spazio anche per l’ambient più sognante (il mini strumentale Water), per opprimenti liturgie à la Rozz Williams immerse in un bagno acido di chitarre fuzz e (bad)vibration psichedeliche (Summon the Sound) o per la disco sintetica (Whitechapel, omaggio ai Pet Shop Boys) in questo bignamino dell’alt-rock, in cui confluisce il meglio degli anni ’80 e di parte dei ’90.

Tutto molto interessante, tutto intelligente, sapientemente orchestrato e confezionato da un gruppo di musicisti che, per quanto giovani, sembrano già assai smaliziati e perfettamente padroni dei cliché dei vari generi affrontati. Il punto, però, è i cinque raramente vanno oltre l’enciclopedismo: il loro debutto è una sfilata di riferimenti variamente colti in cui l’elemento personale latita. Manca, insomma, una rielaborazione, ragion per cui l’insieme stenta a trovare un’equilibrio, un’amalgama, risultando alla fine dispersivo.

Ad ogni modo, è evidente come il potenziale degli S.C.U.M. sia enorme. Resta da capire se gli inglesi riusciranno a trovare la chiave di volta giusta o finiranno a suonare come le centinaia di emuli dei loro stessi idoli.

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