Rian Johnson – Brick. Dose mortale

Se n’è parlato poco di questo Brick. Troppo poco. Fatto salvo un premio speciale della giuria al Sundance, la pellicola, scritta e diretta da Rian Johnson, è passata tutto sommato inosservata. Peccato, perché questo curioso impasto di Raymond Chandler e Gus Van Sant merita davvero. Il riferimento a questi due autori non è casuale, ovviamente: dal primo, il regista americano prende a prestito situazioni e caratteri, imbastendo una trama tipicamente noir, salvo però calarla nel contesto di un grigio college (ecco lo zampino del secondo). Non vi aspettate dunque femme fatale à la Mary Astor o detective dalle fattezze scavate di Humphrey Bogart: qui i protagonisti sono ragazzi del liceo, alle prese con droga, omicidi, tradimenti.

La fragile e smarrita Emily viene trovata assassinata dal suo ex ragazzo, Brendan, il quale proprio poche ore prima aveva raccolto una sua richiesta d’aiuto. Da ciò che ha potuto intuire, la giovane era invischiata con l’organizzazione de “Il Perno”, una figura quasi leggendaria, che rifornisce di stupefacenti tutto il circondario, dall’ultimo spacciatore all'”alta società”. E sì, perché come in ogni scuola americana (da film) che si rispetti, anche qui abbiamo una sorta di divisione in caste, che riflette in qualche modo l’ordine sociale esterno. I due “vip” della situazione sono Bred, “campione” di football (in realtà perennemente fuori squadra), e soprattutto Laura. È da lei che Brendan ed il suo braccio destro, Brain, devono guardarsi: le doti di manipolatrice della ragazza spaventano non poco e rischiano di confondere i labili indizi.

La trama si sviluppa in modo piuttosto complesso. Tutto ruota intorno ad un panetto d’eroina, prima scomparso, poi riapparso ma tagliato male, e ad una gravidanza, quella di Emily, della quale nessuno sembra saperne nulla. Nessuno tranne l’assassino, ovviamente.

Fedele alla legge del noir, secondo cui il confine tra bene e male è assai sfumato, quello di Brick è un microcosmo di ambiguità e doppiezza. La regia dinamica di Johnson (che non lesina slow-motion o improvvise accelerazioni), scandisce un ritmo frenetico, ben in sintonia con una sceneggiatura che fila via come un meccanismo ben oliato. Ottime anche le interpretazioni, in primis quella di Joseph Gordon-Levitt (recentemente ammirato, tra l’altro, in Inception): sul suo volto si condensano tutto il dolore e lo smarrimento di un (anti)eroe stanco e disilluso, prototipo di un adolescenza che ha perduto la propria innocenza troppo in fretta.

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