Wilco – The whole love

Being there (1996), Summerteeth (1999), Yankee hotel foxtrot (2002): con questa tripletta, i Wilco si sono accreditati come una delle band di punta della moderna scena alt-roots americana ed il loro leader, Jeff Tweedy (ex dei seminali UncleTupelo), come una delle voci più intriganti della sua generazione. Merito di un approccio postmoderno, incentrato sulla rilettura, la contaminazione, la mescolanza, la destrutturazione. Folk, country, pop, rock e blues sono le frecce nella faretra del sestetto di Chicago, Illinois, il quale però si è sempre divertito a ridisegnare continuamente la geografia della tradizione USA, slabbrandone i confini, rendendoli meno prevedibili ed armoniosi, meno accomodanti. Questo almeno fino alle prove più recenti, quelle della maturità (A ghost is born, Sky blue sky e Wilco), contraddistinte da un approccio meno eversivo e più studiato, a tratti persino un pizzico autoindulgente.

Da questo punto di vista, neppure The whole love fa sfracelli. In un certo senso, il disco si configura come una summa della produzione di Tweedy e soci. Dentro ci si ritrova un po’ di tutto: elettronica mista a kraut, psichedelia e hard-rock (Art of almost), glam bowiani virati Stones (Dawned on me), uptempo sbarazzini (Standing O), oscuri folk cullati da pedal steel e incorniciati dagli archi (Black moon), confessioni à la Elliot Smith (Sunloathe), swing marchiati Beatles (Capitol City), country sussurrati (Rising red lung), marcette elettriche d’impronta indie (Born alone) e valzerini delicati (Open mind). Assai indicativa, tuttavia, è la chiusura: One Sunday morning (Song for Jane Smiley’s boyfriend) è una nenia country-pop condotta dalla chitarra acustica con lievi innesti di piano la quale, tuttavia, soffre di una certa staticità, peggiorata dalla durata eccessiva (dodici minuti). Perché indicativa? Perché riassume appieno lo stato di salute dei Wilco. Tweedy sa ancora come si scrive una bella canzone (uno come lui semplicemente non è in grado di tirarne fuori di brutte), eppure non riesce ad incidere veramente. Tutto The whole love è una sorta di “coitus interruptus”: formalmente perfetto, ricco di buone intenzioni, ma mai davvero capace di penetrare la carne e arrivare a toccare le corde più profonde dell’ascoltatore.

Siamo dinanzi, insomma, ad un grazioso esercizio di stile. Perfettamente cesellato, confezionato in modo impeccabile, ma pur sempre sterile. La magia sembra essersi esaurita: gli americani, del passato conservano solo la bella calligrafia. Il resto è un ricordo che comincia a coprirsi di polvere.

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