Si può essere il migliore come autista, ma la strada riserva comunque delle sorprese. Come una vicina con una vita complicata di cui innamorarsi, come una città che sembra inghiottire persone e storie. Drive è il film vincitore a Cannes 2011 per la miglior regia. L’eroe è Nicolas Winding Refn, director danese che mescola violenza e poesia, composizione alchemica che offre al suo cinema la poetica del contrasto. La storia è quella di uno stuntman e meccanico durante le ore del giorno, e autista per rapinatori di notte. Tutto cambia quando conosce appunto la sua vicina, Irene, e suo figlio; i problemi iniziano con la scarcerazione del marito della donna, invischiato in certi brutti affari con i soliti gangster.
L’autista (l’Innominato, che ha le fattezze di Ryan Gosling) è un tipo taciturno, controllato, ma lontano, ad esempio, dell’eroe eccessivo incarnato da Charles Bronson nella saga de Il giustiziere della notte. Basato sul romanzo omonimo di James Sallis, Drive è un film che ti tiene incollato al sedile e riesce a mantenere una tensione particolare per la sua intera durata. Per fortuna la dolcezza di Irene (Carey Mulligan) ad alleviare la violenza dell’autista, che altrimenti esplode in rapide azioni tarantiniane, picchi di follia inopinati e fuoriosi. Dinamicità, velocità, tensione: questo offre Refn dietro la macchina da presa. Solitario, il cavaliere senza nome si aggira nella notte tagliandola selvaggiamente, un misto tra Travis Bickle (Taxi driver) e Steve McQuinn. Il suo silenzio è il valore aggiunto di Drive, la sua freddezza l’essenza caratterizzante della notte: la sensazione, agghiacciante, è quella per cui qualcosa di terribile sia sempre dietro l’angolo, pronta a ghermire senza pietà.
Drive è la perfetta unione tra cinema americano (la struttura narrativa) e cinema europeo (la sensibilità e il “tocco” di Refn): il linguaggio non verbale sembra essere il motore del film, i gesti e gli sguardi controllano la storia, la caricano di emozioni. Con una (splendida) colonna sonora “electro” che ricorda Miami vice (merito di Cliff Martinez, con il contributo di Kavinsky, College e altri), il film scivola via con misura ed equilibrio: l’unico momento in cui il controllo sbanda un po’ è quello dell’incontro in ascensore tra il protagonista, Irene ed un sicario (presto ridotto con la faccia in poltiglia). Il resto è un continuo accelerare nella notte, dove la solitudine e l’imprevedibile dominano e il resto è eterno inseguimento.