Kasabian – Velociraptor!

Quando, nel 2004, i Kasabian fecero la loro comparsa sul proscenio musicale con l’omonimo album di debutto, ci volle pochissimo perché la stampa inglese ed MTV ne facessero degli eroi. Impossibile resistere ad un singolo come L. S. F. (Lost Soul Forever) e a quel mix di brit-rock oasisiano e Madchester-sound che contraddistingueva le loro partiture. A distanza di sette anni possiamo dire che, per una volta, l’hype era giustificato. I successivi “Empire” (2006) e “West Ryder Pauper Lunatic Asylum” (2009) non solo confermarono il talento melodico del quintetto (nella fattispecie, del chitarrista Sergio Pizzorno, il compositore principale), ma anche una non comune abilità di incanalare l’immediatezza del pop in brani dalla struttura tutt’altro che banale, per di più corredati da arrangiamenti che mescolavano chitarre, elettronica ed archi con soluzioni a tratti persino estrose. Nessuna rivoluzione, beninteso: la band di Leichester in fondo era l’ennesima figlioccia di Beatles, Kinks, Stones e Who – di quella tradizione, insomma, che era già stata ampiamente saccheggiata, nel decennio precedente, dai fratelli Gallagher e dai loro epigoni. Tuttavia, l’operazione di rilettura e mash-up suonava sincera, personale, accattivante. In una parola, irresistibile.

Ora, due anni dopo l’ultima release, i Kasabian sono tornati in pista con un album, “Velociraptor!”, che, malgrado il titolo, si configura come il più “rilassato” della loro carriera. Certe urgenze e la vena più sperimentale del passato si sono attenuate, in favore di un approccio che privilegia la melodia e la confezione sofisticata. Il rischio era che se ne venissero fuori con un album piatto e monocorde era teoricamente molto alto: pericolo scampato. Tom Meighan e soci sono dei fuoriclasse e il primo singolo, Days Are Forgotten, lo dimostra appieno, impastando in maniera efficace (e un po’ ruffiana) urla primordiali à la Robert Plant (il modello è Immigrant Song), groove dance, chitarre elettriche e refrain epici. Perfette per le piste da ballo sono anche Re-Wired (che odora di Blur) e la martellante title-track, impreziosita da un giro di synth orientaleggiante. Alla club-music snella di I Hear Voices (beat e keyboard a condurre il gioco) si contrappone la più articolata Switchblade Smiles, una litania dilatata che poggia su un drumming tribale (ancora gli Zeppelin diImmigrant Song) avvolto da coltri di sintetizzatori sporchi e sei corde minacciose. Acid Turkish Bath (Shelter from the Storm), dopo un incipit che sembra quasi voglia riscrivere Kashmir (sempre della premiata ditta Page/Plant), si rimangia tutto, abbozzando un deliquio radioheaddiano per poi proseguire in chiave epico/cinematica, rimescolando infine il tutto. Neon Noon, commistione di acustico e sintetico, si concede una (per loro) inedita incursione nei territori del danzabile atmosferico.

Tuttavia, sono le ballate l’ossature del nuovo lavoro. Ricercate, eleganti, smaccatamente british, Let’s Just Roll What We Used To (introdotta da trombe stile spaghetti-western e incorniciata dagli archi), Goodbye Kiss (che mostra una vena insolitamente nostalgica e tenera), l’indolente La Fée Verte (che nel testo cita espressamente la beatlesiana Lucy in the Sky With Diamonds) e Man of Simple Pleasure (l’unico momento veramente prevedibile dell’album) tradiscono un’ispirazione che affonda le sue radici nell’arte di Davies, McCartney e Lennon e nei fidi emuli Oasis e Libertines/Babyshambles.

Nel complesso, dicevamo, un album di fattura più che buona, meno sorprendente (e dunque entusiasmante) dei suoi predecessori, ma pur sempre una spanna sopra quello che il mercato inglese offre oggigiorno. La sensazione è che “Velociraptor!” sia un LP di transizione, e che Pizzorno stia guardandosi intorno per cercare nuove strade da esplorare: se è così, gli auguriamo di trovare presto la direzione desiderata. Sarebbe un peccato se i Kasabian si riducessero a controfigura discotecara di un Pete Doherty qualsiasi…

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