Gli Suede sono stati un po’ la provincia di quell’impero chiamato brit-rock, della cui effettiva consistenza, per altro, ancora oggi si discute: movimento musicale a tutti gli effetti, dotato dunque di propria autonomia e personalità stilistiche, oppure banale fenomeno di revival? La questione è complessa e meriterebbe una trattazione ben più approfondita di quanto quest’articolo potrebbe offrire, pertanto sorvoleremo. Certo è che la formazione capitanata da Brett Anderson ha sofferto da un lato la concorrenza spietata di Oasis e Blur (i nomi di punta della scena inglese della metà degli anni ’90), e dall’altro l’incapacità di mettere a frutto un potenziale che in alcuni casi sembrava davvero ampio. Dopo un primo omonimo album magari acerbo ma vibrante, sfrontato, ricco di melodie trascinanti, la band (complice l’uscita del chitarrista Bernard Butler, co-autore di tutti i brani) ha ripiegato verso un sound più barocco, finendo però con lo scimmiottare il Bowie di “Ziggy Stardust” (da sempre la fonte d’ispirazione principale del quartetto) al punto tale da divenirne l’involontaria caricatura.
Così, messi da parte i compagni d’avventure nel 2002 dopo il fiacco “New Morning”, il singer/songwriter britannico ha lanciato una carriera solista contraddistinta da un approccio decisamente meno rock-oriented, più intimista, raccolto. Ballate romantiche a luci soffuse, cariche di un pathos sofferto ma rattenuto, convogliato in forme meno irruente, che testimoniavano di una raggiunta maturità e che, nei casi migliori (“Slow Attack”, 2009), mostravano lampi di un talento genuino, amplificando il rimpianto per quello che i Suede sarebbero potuti essere.
Sorprendentemente, però, “Black Rainbows” si rimangia (quasi) tutto: chitarre fuzzose, orchestrazioni ampie, progressioni incalzanti e crescendo grandiosi sono gli ingredienti di dieci partiture che strizzano l’occhio al Morrissey solista (altra grande passione del nostro Brett: del resto, Suede viene daSuedehead, storico brano inciso dal cantante all’inizio della sua avventura solista) e rievocano gli antichi fasti del gruppo madre. Non è un caso, ovviamente, che da qualche mese si parli di una reprise della saga dei brit-poppers di Animal Nitrate. Peccato, però, che stavolta a latitare sia l’ispirazione. Brittle Heart è una giostra ipnotica stile “Madchester” la quale, malgrado l’impennata sentimental-melodrammatica del ritornello, non decolla mai veramente. La delicata Crash About to Happen e la più grintosa Actors suonano come plagi dell’ex-Smiths, mentre in In the House of Numbers riecheggiano inconfondibili la chitarra di The Edge e le ritmiche marziali di Mullen e Clayton, ma almeno il refrain lascia il segno. Cosa che non accade in I Count the Times, balladtesa, propulsa da un beat pesante ed arricchita da archi degni di Broadway, la cui solennità sa di manierismo.
Che il tentativo sia quello di riannodare i fili con la propria storia passata è evidente soprattutto in Thin Men Dancing, boogie à la Marc Bolan che recupera il piglio glam dei Suede. Stesso discorso per la martellante e ruvida The Exiles, più cupa. Tutta forma, però: di sostanza ce n’è ben poca. La verità è che Anderson procede per cliché. Le sue confessioni puntano ad evocare struggimento e solitudine, ma suonano inautentiche, vuote, perché si impantanano nelle secche di un’ispirazione che sembra ormai inaridita. This Must Be Where It Ends, lento corroso da chitarre sature ed animato da un crescendo programmaticamente esplosivo, ne è la dimostrazione più lampante. Peccato, perché l’opener Unsung aveva fatto ben sperare: lì il nostro aveva trovato il giusto mix di grandeur e raccoglimento, di asperità e tenerezza, seguendo il filo conduttore della melodia e non, come accade nelle restanti tracce, facendosi guidare dall’arrangiamento. Bene anche Possession, nonostante la parentela eccessivamente stretta con certi struggimenti di Bono Vox, se non altro perché sfodera un sincero anelito passionale, ripiegando su formato meno ipertrofico dal punto di vista sonoro, quello che, ad oggi, sembra più congeniale a Mr. Anderson. Se questo è l’antipasto per la rentrée dei Suede, non c’è da star allegri.