Il firmamento roots americano s’arricchisce di una nuova stella: Jonathan Wilson. A molti di voi questo nome non dirà niente, eppure il songwriter nativo di Forest City, North Carolina, proprio uno sconosciuto non è. Malgrado la sua giovane età (37 anni), ha già svolto un’intensa attività di produttore, lavorando, tra gli altri, con gente del calibro di Elvis Costello, Erykah Badu, Josh Tillman (batterista dei Fleet Foxes), Will Oldham e Robbie Robertson. Il balzo dall’altra parte della barricata, per così dire, il nostro l’aveva in effetti già tentato un paio di volte: la prima come leader dei Muscadine, coi quali aveva pubblicato, nel lontano 1998, “The Ballad of Hope Nichols”, passato sotto silenzio; la seconda come solista, con quel “Frankie Ray” che, ultimato nel 2007, non ha però mai visto la luce. “Gentle Spirit” è dunque, a tutti gli effetti, il suo debutto, ed è, tanto per esser chiari, un signor album.
Le tredici tracce del full-lenght fondono in maniera egregia la lezione di Neil Young e Buffalo Springfield con quella diQuicksilver Messenger Service e Pink Floyd, miscelando con mano equilibrata e sapiente country, folk, blues e psichedelia. Le raffinate trame intessute da basso, batteria, organo e chitarre, con l’aggiunta di qualche spruzzo d’elettronica, rimandano agli spazi assolati del Laurel Caynon, uno dei santuari della controcultura hippie anni ’60. Purtuttavia, la musica di Wilson è in grado di andare oltre il banale omaggio deferente: la scrittura denuncia sì una perfetta conoscenza di quel periodo e di quella scena musicale, ma è ben attenta ad appiattirvisi passivamente, cercando piuttosto di rielaborare in maniera personale il materiale di riferimento, piegandolo ad un’esigenza espressiva e ad una poetica proprie e non artefatte in nome del revivalismo più ruffiano.
Il songwriting dell’americano si mostra se non, ovviamente, all’altezza dei maestri, quantomeno degno di essi, grazie a partiture lunghe, corredate da intro e outro strumentali e intermezzi fantasiosi, i quali, tuttavia, non sono un mero pretesto per sfoggiare abilità tecnica, ma un elemento inscindibile nel tessuto armonico/melodico. Non una nota, un accordo, viene sprecato. Merito anche dell’apporto di musicisti del calibro di Gary Louris (cantante deiJayhawks), Andy Cabic e Otto Hauser (voce e batteria dei Vetiver), Josh Grange (pedal steel), Adam McDougal (Black Crowes, hammond), Brian Geltner (batteria), Gerald Johnson (basso), Barry Goldberg (tastiere) e Gary Mallaber (batteria, già con la Steve Miller Band e Van Morrison), i quali, alternandosi a seconda delle esigenze espressive dei singoli pezzi, hanno coadiuvato Wilson, polistrumentista di rara bravura, impegnato alla voce, alla chitarra e al basso.
Ne è risultata una manciata di composizioni liriche, trasognate, approcciate con una delicatezza ed un garbo d’altri tempi, ballad che si districano con disinvoltura tra crescendo luminosi (la title-track), arpeggi minimalisti à la Nick Drake (Ballad of The Pines), inquietanti disturbi elettronici ed orchestrazioni eleganti (Desert Raven), acidità da jam psichedelica (The Way I Feel, che stravolge l’originale di Gordon Lightfoot), visioni pinkfloydiane (Natural Rhapsody, che ibrida i Gilmour e Waters di Shine on You Crazy Diamond con i Radiohead di Subterranean Homesick Alien, e l’hard-blues di Woe Is Me), strizzate d’occhio ad Elliot Smith (Can We Really Part Today?) e paesaggi youngiani (la tenera Magic Everywhere e la cavalcata acida di Valley of the Silver Moon, in cui affiora tuttavia anche lo spirito dei Floyd).
Registrato interamente in analogico con una consolle del 1972, per catturare meglio lo spirito delle composizioni, e concepito essenzialmente per il vinile (a detta di Wilson, qui anche produttore, «l’unico formato che abbia un significativo valore»), “Gentle Spirit” è uno di quei dischi che non si dimenticano facilmente, opera di un artista nel pieno della sua maturità espressiva, capace di incantare con la purezza e la (apparente) semplicità che sono prerogative dei grandi.