La “ruggine” cui allude il film di Daniele Gaglianone è quella del “Castello”, un orribile ammasso di ferraglia industriale nell’estrema periferia della Torino dei ‘70. Un gruppo di bambini (tutti figli di emigrati, ça va sans dire) ha eletto la coppia di silos e il suo cortile a quartier generale. Ci sono, in particolare, Carmine, il “capo”, Cinzia e Sandro. La loro è la tipica infanzia di strada, a base di giochi “poveri”, piccole prevaricazioni e tenerezze ben più grandi. Gli adulti non c’entrano qui, perché Gaglianone mantiene la telecamera ad altezza di bambino, e quando la alza è solo per illuminare un macrocosmo di distacco e crudeltà – quella sì vera. Accade, infatti, che il nuovo medico della zona, il dottor Boldrini, si scopre essere un pedofilo assassino: ne fa fuori due, entrambe bambine, prima che sia fermato. Con le cattive: sotto gli occhi sgomenti di Cinzia e Sandro, Carmine riesce così ad evitare che la sorellina Betta sia la terza vittima.
Se i ragazzi hanno agito per conto loro è perché sapevano che, se l’avessero raccontato ai grandi, questi non gli avrebbero creduto. Del resto, come si può pensare che un uomo così elegante, laureato, sempre in giro in Mercedes, possa essere un assassino? La vicenda avrà sui tre esiti imprevedibili, lascerà cicatrici impossibili a rimarginarsi. Gaglianone inframmezza le scene dal passato con il racconto di una giornata nel presente. Carmine è in un bar: amareggiato, sconfitto dalla vita, per poco non viene fatto fuori da uno strozzino per un debito non saldato (fortuna c’è la sorella a proteggerlo). Sandro è a casa, a giocare con il figlio: ininterrottamente, con affetto, quasi a cercare di superare così il ricordo di un padre distante, freddo, che gli rimproverava sempre “ma quando crescerai?”. Cinzia, invece, fa l’insegnante. È a scuola, impegnata nello scrutinio di fine anno: se la prende con una coppia di colleghi che, ottusamente, ironizzano e sottovalutano le difficoltà di una ragazza vittima di abusi sessuali da parte del genitore. Eccola, dunque, fuor di metafora, la ruggine di cui parla Gaglianone: la memoria che i gesti quotidiani recano di un passato impossibile da dimenticare.
Ispirato al romanzo di Stefano Massaron, il film è fin troppo lento. Ma l’ambientazione, una sorta di deserto di scorie del “boom”, con tutto il suo corollario di degrado, miseria e depressione, e il modo in cui il puzzle prende forma, con scioltezza, fluidità, ne fanno comunque un buon esempio di cinema “dilatato” e “metafisico” (Inarritu docet). Con, forse, un sottotesto politico: Boldrini, infatti, è il simbolo di una borghesia impazzita e “cannibale”, che spezza i propri figli (del Sud). Ottimo il cast, con Timi e Mastandrea sugli scudi.