Gotye – Making mirrors

Passato, presente, futuro: categorie ormai superate nel mondo della musica e dell’arte in generale. La rivoluzione della postmodernità ha scompaginato le carte, mescolato stili, generi, linguaggi. E se talvolta gli anacronismi che ne derivano suonano forzati, sterili, in altri casi, pur nell’assenza di novità dirompenti, si mostrano accattivanti, azzeccati. La differenza, ovviamente, la fanno la personalità (non necessariamente l’onestà) e il talento, di cui Gotye è indubbiamente dotato.

Giunto alla sua terza prova, l’australiano di origini belghe (vero nome Wouter De Backer) conferma quanto di buono aveva fatto scrivere con il precedente Like drawing blood (2006). Making mirrors consolida la sua formula, un electro-soul svolto sotto le insegne di un art-pop melodicamente impeccabile (e ruffiano). Ovviamente, qui tiene banco il gioco delle citazioni: tuttavia, i nomi di Peter Gabriel, Cee Lo Green e MGMT (tanto per farne qualcuno) da soli non spiegano nulla. Perché in Making mirror la varietà dell’insieme si sposa ad una notevole coesione, e questo sarebbe impossibile se le tracce si limitassero ad affastellare cliché senza un briciolo di ironia, di curiosità. Ecco la parola chiave: Gotye si muove tra overture eelsiane (la title-track), sprazzi di Motown anni ’60 (I feel better) e incastri di Beck, i Beatles di Drive my car e gli Yes di Owner of a lonely heart (la sferzante Easy way out) con inquietudine ed una sorta di subdola voracità. S’è capito, lo spettro stilistico è assai ampio, pur nella complessiva vicinanza a ritmi black e suggestioni etno. State of the heart, ad esempio, scherza con il reggae, l’oscura Don’t worry, we’ll be watching you tradisce debiti evidenti con l’hip-hop, Somebody that I used to know (duetto con Kimbra) è impreziosita da aromi mediorientali (e da un falsetto à la Sting), mentre In your light sta tra il krautrock e il George Michael di Faith. Evidenti poi le coloriture afro di Bronte (nel solco di Gabriel), Save me e Smoke and mirrors. Più defilata, Giving me a chance sembra fare il filo allo Springsteen di Streets of Philadelphia.

Gotye, insomma, ha costruito un piccolo bignami di electro-pop terzomondista, conteso fra modernità ed echi antichi. La nostalgia è bandita qui, così come ogni connotazione “politica” (in questo, Gabriel è lontanissimo): c’è “solo” il piacere di sporcarsi le mani con linguaggi e forme diversi. Ecco, ci sarebbe da lavorare un po’ sulla profondità, ché altrimenti si rischia di diventare autoreferenziali. Per ora, comunque, bene così.

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