Beirut – The Rip Tide

Quando, nel 2006, uscì “Gulag Orkestar” furono in molti ad inserire Beirut, alias Zacahry Francis Condon, tra le più interessanti novità della scena indie. La sua musica, infatti, si proponeva come un raffinato mash-up di Magnetic Fields, Rufus Wainwright, Natural Milk Hotel, Bright Eyes e Sufjan Stevens da un lato, e A Hawk and a Hacksaw dall’altro. Il risultato era un etno-alt-folk che, forte di arrangiamenti barocchi (in cui svettavano chiaramente i fiati), guardava ai Balcani senza dimenticare, tuttavia, spunti latin. “The Flying Club Cup” (2007) ne consolidò la fama, nonostante un approccio forse più riflessivo, mentre l’EP “March of the Zapotec/Holland” ne mostrò il lato più sperimentale, alternando una manciata di composizioni elettroniche (firmate con lo pseudonimo di Realpeople) ad una serie di tracce registrate ad Oaxaca, Messico, con la Jimenez Band.

Ora è la volta di “The Rip Tide” che, come spesso accade quando si giunge alla soglia del fatidico terzo album, segna una piccola svolta nel sound di Condon. Le nove tracce che lo compongono, infatti, si contraddistinguono per un approccio maggiormente “pop” alla scrittura. Proseguendo lungo la scia del precedente LP, il disco trova un equilibrio tra slanci brillanti e passaggi più malinconici, rinunciando al piglio vibrante dell’esordio e puntando su una maggior sofisticatezza. Gli arrangiamenti, come sempre, sono il punto di forza di Zachary: fiati, archi, piano, ukulele e un pizzico d’elettronica (“Zapotech” non era un semplice divertissement, dunque) tessono alla perfezione una trama sonora che anche quando si fa lussureggiante sta ben attenta ad evitare eccessi tronfi e grandiosità fini a se stesse. E mentre in passato la voce era decisamente in secondo piano, in “The Rip Tide” il crooning malinconico di Condon si ritaglia uno spazio consistente sulla ribalta. Un altro segno di maturità, insomma, che testimonia il desiderio del nostro di imbastire un’opera più cantautorale che in passato.

Missione parzialmente compiuta. “The Rip Tide”, pur con qualche calo di tensione, imputabile a melodie non sempre brillanti, conquista grazie all’eleganza dell’insieme e ad un’attenzione per l’articolazione delle partiture che non toglie nulla alla godibilità complessiva. La sbrigliata A Candle’s Fire, i synth minimalisti di Santa Fe, il tripudio di violini e trombe di Payne’s Bay (incrocio tra valzer e marcia militare), le piano-driven East Harlem, The Rip Tide e Vagabond (quest’ultima con influenze sudamericane), la commovente The Peacock (per voce e ottoni) e la delicata nenia folkie di Port of Call costituiscono altrettanti tasselli di un percorso di maturazione che, dalla sfrenata esuberanza degli esordi, approda ad una classicità la quale, nel caso di Beirut, non è sinonimo di stantio ma di rinnovamento. Un disco, insomma, che fotografa una fase di transizione nella carriera del musicista del New Mexico: sarà interessante seguirlo nelle prossime mosse, per vedere cosa sarà capace d’inventarsi. La sensazione è che potrebbe stupirci, e non poco…

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