Brad Anderson – Vanishing on 7th Street

C’è un’antica leggenda, piuttosto affascinante. Racconta di una piccola isola, Roanoke, situata al largo dell’attuale Nord Carolina, la quale, nel 1585, fu prescelta per ospitare la prima colonia inglese nel Nuovo Mondo. Sin dall’inizio, chi sbarcò su quella piccola striscia di terra non ebbe vita facile: Sir Ralph Lane (capo della spedizione assieme a Sir Richard Granville), sospettando i nativi del furto di una tazza da tè, ne uccise il capo. Cominciò uno scontro durissimo con gli autoctoni che si concluse con una prima, provvisoria ritirata (solo 15 uomini lasciati a proteggere il piccolo insediamento dei sudditi di sua Maestà). Ma Sir Walter Raleigh, che aveva pianificato il viaggio, non si lasciò abbattere e organizzò una seconda spedizione, guidata da John White. A bordo della nave, 117 persone, tra le quali sua figlia, in procinto di partorire, e il genero. Giunti a Roanoke il 22 luglio del 1857, dovettero subito fare i conti con uno spettacolo raccapricciante: la morte dei quindici soldati connazionali, di cui gli indigeni avevano lasciato solo le ossa. White e l’equipaggio decisero allora di ripartire per la madrepatria per procurarsi il necessario per costruire abitazioni più consone. Al loro ritorno, nel 1590 (il conflitto tra Inghilterra e Spagna aveva rallentato le operazioni di soccorso), i coloni scoprirono che l’insediamento, circondato da una strana palizzata eretta nel frattempo, era completamente deserto: non v’era traccia degli abitanti. I loro effetti personali erano lì, ma le case erano deserte, cadenti: spariti nel nulla, insomma. Un solo messaggio campeggiava su uno dei tronchi del recinto: “Croatoan“. Dal momento che esisteva un’isola con quel nome, si suppose che i 117 si fossero trasferiti lì. Errore: dei coloni neppure l’ombra.

Ovviamente, il mistero, nel corso degli anni seguenti, fu indagato da avventurieri, esploratori, amanti dell’occulto. Molte le teorie al riguardo: da quelle più razionali (un massacro degli indiani, la morte a causa di un uragano o della siccità, il mescolarsi alle tribù indigene) a quelle decisamente più fantasiose (rapimento di alieni, campi magnetici che avrebbero spostato la colonia in un’altra dimensione ecc.). Rimane il fatto che quello di Roanoke è, ancora oggi, uno dei misteri più affascinanti che la storia reca con sé.

Curiosamente, però, il cinema non se n’è mai interessato: al di là di qualche produzione televisiva, infatti, mancano pellicole che abbiano provato ad indagare il mistero. Brad Anderson, già regista dell’ottimo The machinist – L’uomo senza sonno, riprende lo spunto, aggiornando la vicenda ai giorni nostri, e confezionando una pellicola di buona fattura. L’inizio è particolarmente efficace: all’interno di un centro commerciale, un misterioso blackout causa la sparizione di tutti i presenti. Ad accorgersene è uno spaesato proiezionista, il quale, al momento del ritorno delle luci, si rende conto che la sala è deserta: in luogo degli spettatori, solo i loro vestiti, come se l’oscurità l’avesse, né più né meno, risucchiati. Oltre che su Paul, lo script si concentra su altri tre personaggi: Rosemary, un ex tossicodipendente che ha perduto il proprio bambino di undici mesi; Luke, giovane giornalista televisivo, il quale ha scelto di separarsi dalla moglie per seguire la carriera; e il giovane James, figlio di una barista del “Sonny’s” uscita alla ricerca di superstiti e non ancora tornata. Ed è proprio nel locale che, 72 ore dopo l’inizio della vicenda, i nostri si ritrovano casualmente asserragliati: l’unico modo per evitare di farsi “prendere” è essere circondati dalla luce (anche artificiale) ed il posto, fortunatamente, possiede un generatore di corrente. Il quale, tuttavia, è prossimo ad esaurirsi.

È la parte preminente del racconto, questa, che cita espressamente gli accerchiamenti di cui sono vittima i personaggi romeriani. Solo che qui non ci sono gli zombi a minacciare l’incolumità dei protagonisti, ma una sorta di macchia d’ombra che invade gli spazi non appena una lampadina o una torcia minacciano di spegnersi, salvo poi ritirarsi quando il bagliore rifulge di nuovo. Alla dicotomia luce-ombra si ricollega il contrasto tra nichilismo e fede rappresentato rispettivamente da Luke e Rosemary. Alla seconda, che, ossessivamente, invita i presenti a chiedersi perché proprio loro siano stati risparmiati, perché si siano trovati qui, alludendo, evidentemente, all’imperscrutabile disegno divino, il giovane cronista televisivo ribatte che la loro attuale condizione è solo frutto del caso. Dio è sparito come tutti gli altri, per Luke, e se la donna confida in Gesù è solo per aggrapparsi a qualcosa che dia un senso alla sua immane perdita.

È evidente, però, come il regista, alla fine, propenda per la soluzione religiosa. La macchina da presa, una volta indugiato sul volto di James (l’ultimo rimasto del gruppo) dopo che questi è stato “risparmiato” dal buio che l’aveva appena avvolto, si volge in direzione di un Cristo con le braccia misericordiosamente spalancate (siamo all’interno di una chiesa). Oltre a lui, c’è una bimba, Briana (sopravvissuta sino a quel momento grazie ad una torcia alimentata a luce solare). I due si mettono allora in viaggio verso Chicago (da dove Luke aveva captato la trasmissione di un sopravvissuto) in sella ad un cavallo. Da questo punto di vista, aveva ragione Paul: quello a cui abbiamo assistito è un grandioso “reboot”, un “riavvio” – un po’ come se qualcuno avesse schiacciato il tasto “reset di un PC. Per rimanere sul piano religioso, non un Apocalisse, ma l’equivalente dei quaranta giorni e quaranta notti di pioggia che “azzerarono” l’umanità corrotta ed immorale e consentirono solo ad alcuni innocenti (in quel caso il pio Noé e gli animali, qui i due bambini) di trarsi in salvo. Novelli Adamo ed Eva pre-adolescenti, James e Briana vagano tra le macerie di una civiltà (anche in questo caso marchiate dalla sinistra scritta “Croatoan“) che, in nome del denaro, del successo, del vizio ha edificato grattacieli, conquistato la luna, inviato satelliti nello spazio, costruito cellulari, computer, televisioni, piegato il fuoco e l’elettricità alle proprie esigenze ma ha perduto il contatto con Madre Terra: il ronzino che mastica una mela al sorgere del sole, in mezzo ad una strada popolata da carcasse di auto in disuso, assume i contorni di un’apparizione surreale, quasi mistica; la stessa lampadina ad alimentazione solare alla quale Briana deve parte della propria sopravvivenza fa apparire ridicoli gli sforzi dei “grandi” di racimolare pile, batterie o combustibili.

Una distopia da “ultimo uomo sulla Terra”, insomma, che si carica di significati sul senso profondo del nostro “esserci”. «Io esisto», bisbigliano in continuazione le ombre di cui si compone il misterioso blob d’oscurità liquida che divora ogni creatura umana. E «io esisto» esclama anche Paul, il proiezionista, poco prima di soccombere definitivamente (era già stato rapito una volta, ma per qualche misteriosa ragione poi rilasciato) alle tenebre. Ed è partendo da questa figura che possiamo trarre una seconda interpretazione della pellicola, tutta metalinguistica. Il fatto che la vicenda prenda le mosse proprio all’interno di un cinema, con la macchina da presa che insiste ossessivamente sui particolari della pellicola che gira nel proiettore ed i microfoni che ne amplificano il fruscio, lascia supporre come Anderson abbia voluto mettere in scena anche una sorta di riflessione sulla reale consistenza dello spettacolo filmico. Lo spazio, ben delimitato, in cui è circoscritta la vicenda (la “settima strada” cui allude il titolo), con i suoi luoghi così simili a fondali cinematografici (guardare, ad esempio, certe inquadrature della facciata esterna del bar) e così tipici della cinematografia horror (il cinema, il centro commerciale, il locale-fortezza, una chiesa), la stessa bidimensionalità psicologica dei caratteri (il rampante ma in fondo altruista Luke, la madre un tempo sbandata ora redenta Rosemary, il timido sognatore Paul, i candidi e spaventati eppure coraggiosi James e Briana) – sono tutti elementi che depongono a favore di un’interpretazione che privilegi la riflessione sulla natura dell’oggetto-film. Qual è, in altre parole, il limite tra realtà e fantasia? Sicuri che ciò che vediamo sullo schermo sia solo e soltanto un cumulo di fotogrammi che, lanciati a gran velocità, creano l’illusione del movimento? Non è il cinema stesso una dimensione parallela in cui vivono storie e creature? E la macchina da presa una sorta di varco che ci pone in contatto con questo multiverso colorato? L’angoscia del carachter, la paura di scomparire, risucchiato da una dissolvenza in nero: ecco qual è l’orrore che attanaglia i protagonisti di Vanishing on 7th Street. Che è poi anche la nostra angoscia: quella di non essere realmente, di essere sogni sognati da qualcun altro, burattini nelle mani di un Demiurgo che ci usa e poi ci getta via quando lo spettacolo che ha allestito per chissà chi termina. «Io esisto»: ce lo ripetiamo, ma è un modo per convincerci che tutto non sia una patetica illusione.

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