Arcade Fire – Piazza Napoleone, Lucca

Quando, alle 21:30 in punto, gli Arcade Fire fanno il loro ingresso sul palco, la temperatura, già alta, sale ancora di più. Il pubblico che gremisce piazza Napoleone, a Lucca, dove i canadesi si esibiscono nell’ambito del “Summer Festival”, esplode in un boato. Quell’accoglienza così trionfale e calorosa (un’atmosfera che si manterrà intatta per tutto il concerto e che si sublimerà in estasi nel finale, affidato all’immancabile Wake Up) testimonia come la band originaria di Montreal sia ormai entrata nel Pantheon dei grandi del rock, superando i confini ristretti dell’indie ed imponendosi come uno degli act più significativi degli ultimi dieci anni. Merito soprattutto dei primi due album, Funeral (2004) e Neon Bible (2007), che hanno fatto gridare al miracolo la critica di mezzo mondo ed entusiasmato centinaia di migliaia di orfani di certe sonorità wave emerse a cavallo tra i ’70 e gli ’80.

Che Win Butler, Régine Chassagne, Richard Reed Parry, William Butler, Jeremy Gara, Sarah Neufeld, Tim Kingsbury e Marika Anthony-Shaw siano in forma lo si capisce subito dal modo in cui azzannano Ready to Start, estratta dall’ultimo album, il discreto ma non eccellente The Suburbs (2010). La sezione ritmica martellante, le chitarre taglienti e l’interpretazione vibrante di Butler scatenano il pogo selvaggio nelle prime file, offuscando immediatamente la pur dignitosa esibizione dei Classic Education, band brit/pop-wave italiana chiamata ad aprire il concerto. Che prosegue sempre nel solco dell’ultimo full-lenght con la delicata nenia di The Suburbs e lo scalmanato rockabilly di Month of May. Inutile, però, girarci intorno: se gli Arcade Fire hanno conquistato i cuori di tanti aficionados, è soprattutto grazie a due brani ormai assurti a simbolo degli anni Zero. E uno di questi è Rebellion, inserito al quarto posto della scaletta, che il pubblico riconosce sin dalle prime note.

A guardare il palco, l’apparato messo in piedi dai nostri è impressionante: due batterie, percussioni, basso, una sfilza di chitarre, theremin, piano, keyboard, archi, con gli otto che, sovente (con l’eccezione delle due violiniste), si divertono a passare da uno strumento all’altro. Peccato che il lavoro dei fonici smorzi la possanza del sound, impendendo, in particolare, alle sei corde e agli archi di graffiare come dovrebbero. Ma in una serata del genere, persino un particolare così importante passa in secondo piano. Butler giganteggia (in tutti i sensi) sul palco, la band lo segue entusiasta ed il pubblico è in visibilio. Neighborhood #2 (Laika) e soprattutto No Cars Go (come le precedenti due, contenuta nel debut), particolarmente trascinante, mostrano come, se hai le canzoni e la grinta, persino qualche volume non correttamente settato può diventare un dettaglio.

Applausi scroscianti anche quando Butler intona Speaking in Tongues, una suggestiva ballata dal sapore 80s (presente nella versione deluxe di The Suburbs, che alla fine risulterà l’album più saccheggiato) giocata su un arpeggio folkie minimalista di chitarra, ritmica secca ed elettronica leggera ed evocativa. Prima di eseguire Intevention (appassionato ed evocativo ibrido tra U2 e Dylan contenuto in Funeral), il frontman invita gli spettatori a recarsi presso l’apposito stand e ad acquistare una t-shirt speciale del gruppo, il cui ricavato andrà alle popolazioni dell’isola di Haiti, devastata da un terremoto lo scorso anno. Un handclapping convinto accompagna le ritmiche irregolari e la melodia delicata di Modern Man, mentre Rococo (anch’essa dall’ultimo LP) segna un piccolo momento di stanca. Neighborhood #1 (Tunnels), contenuta nel CD del 2004, con il suo crescendo epico e struggente risolleva subito le sorti della serata, anche grazie ad un’interpretazione particolarmente ispirata di Butler. La caraibica Haiti (intonata dalla Chassagne, che si profonde anche in una divertita e divertente coreografia, con tanto di nastri colorati), nell’esecuzione proposta dall’ensemble perde buona parte del fascino che aveva su “Funeral”: la band, infatti, sceglie di eliminare certe increspature, certe tonalità più oscure del pezzo prediligendo sfumature più solari. Leggera è anche Sprawl II (Mountains Beyond the Mountains), la quale, nonostante flirti palesemente con il disco-pop degli ABBA, dimostra di piacere al pubblico. Applausi convinti anche per We Used to Wait, proposta in una versione più coinvolgente di quella incisa sempre per The Suburbs. Ma è con la torrida Neighborhood #3 (Power Out), una delle vette del primo lavoro, tripudio di chitarre funky distorte e vocals isteriche, che gli Arcade Fire segnano il colpo del KO definitivo. O, almeno, quello che sembra il colpo del KO.

Perché quando la band, dopo una breve pausa, ritorna onstage, tira fuori due autentici prodigi: la saltellante e nevrotica Keep the Car Running (presente su Neon Bible) e, soprattutto, la perla assoluta, quella Wake Up (da Funeral) che ormai ha lo statuto di una sorta di inno generazione. Ed è sulle note di questa preghiera enfatica e struggente al tempo stesso che si chiude il concerto, uno show di rara intensità e potenza soprattutto emotiva, che sottolinea la grandezza di una band capace di arringare le folle senza effetti speciali ma con la sola forza delle canzoni. Il che, al giorno d’oggi, non è poco. E pazienza se i fonici non erano in ottima forma (eufemismo) e se, al momento dei saluti, Butler, con gesto antipatico, per la seconda volta durante lo show sottrae ad uno spettatore in prima fila un cembalo regalatogli dallo stesso Reed Parry, gettandolo sul palco poco prima di dell’uscita di scena: ad uno che scrive canzoni così si perdonano anche cose del genere.

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