Takashi Miike – 13 Assassini

Takashi Miike è quello che si può tranquillamente definire un regista di culto. Classe 1960, in vent’anni di carriera ha diretto una settantina di lungometraggi (cui si aggiungono corti e film e miniserie per la televisione), contraddistinti da uno stile eccessivo, estremo, che ha flirtato spesso col l’horror e lo splatter. 13 Assassini, nuovo capitolo della sua produzione, non sfugge alla regola. La pellicola è in realtà un remake dell’omonimo classico del jidai geki (i film di samurai) diretto nel 1963 da Eiichi Kudo. Ambientata nel Giappone feudale dello shogunato (un governo militare retto dal capo dell’esercito, lo Shogun, per l’appunto), pacificato dopo l’epoca delle guerre, narra dell’eroica impresa di dodici samurai e un montanaro che s’unisce a loro, ai quali è stato affidato il compito di eliminare il crudele Naritsugu, fratellastro dello Shogun, in piena ascesa politica. Capo della spedizioneShinzaemon, il quale, con l’aiuto dei suoi, attira il malvagio signore ed il suo numeroso esercito, composto da 200 unità guidate da Hanbei, storico avversario di Shinza, in un piccolo villaggio trasformato per l’occasione in una trappola mortale. La missione, data la disparità di forze, è chiaramente suicida, ma poco importa. In gioco, qui, c’è qualcosa di più che la vita: si tratta dell’onore.

L’etica di un samurai impone di difendere il proprio padrone anche a costo della propria incolumità ed indipendentemente dalle gesta orribili di costui s’è macchiato. Suo compito non è giudicare né fare domande, ma solo obbedire al proprio destino, che è, quasi sempre, un destino di morte, a cui andare incontro a testa alta. Ma 13 Assassini, sebbene stilisticamente rispetti i canoni del genere, giacché Miike epura qui il suo stile dagli eccessi consueti (pur non risparmiando decapitazioni, mutilazioni e crudeltà assortite, sulle quali, tuttavia, non indulge con alcun compiacimento), va oltre la tradizionale ricostruzione (magari un po’ nostalgica) di un passato di imprese eroiche ed uomini valorosi, senza macchia né paura. Si pensi, ad esempio, alla scelta del titolo: 13 Assassini. “Assassini” perché Shinzaemon e i suoi guerrieri, pur ricevendo l’incarico da un alto ufficiale dello Shogun, l’onorevole Doi, sono in realtà ronin, samurai che, in epoca di pace, sono rimasti senza padrone. Sebbene combattano perché sdegnati dai delitti di Naritsugu e perché consapevoli che il periodo di quiete e prosperità rischia di essere minacciato dall’ascesa di questi, si tratta né più né meno che di killer. Sotto questo punto di vista, Hanbei è il vero depositario dell’etica del samurai: a muoverlo è la devozione assoluta nei confronti del proprio padrone, anche se, evidentemente, anch’egli inorridisce di fronte al sadismo del fratellastro dello Shogun. I “tredici assassini”, in effetti, sono le tipiche figure miikeiane di individui ai margini della società, incapaci di integrarsi: terminata l’epoca delle grandiose epopee militari, questi uomini si trovano semplicemente disoccupati, portatori di una serie di valori e rituali già quasi fuori posto nella nuova società giapponese (che di lì a poco, infatti, avrebbe abbandonato definitivamente il sistema dello shogunato).

Ad una prima parte, lunga più di un ora, nella quale il regista ci presenta i personaggi principali, ricostruendo gli antefatti tramite un uso oculatissimo del flashback, segue la seconda, la più spettacolare: quarantotto minuti ininterrotti di battaglia. Le scene d’azione sono coreografate con precisione chirurgica, così come scattante, al pari delle spade che decapitano, mutilano e sventrano, è il montaggio. Nessuna concessione, dicevamo, al grand-guignol e agli eccessi di un tempo (o quasi: ad un tratto, un edificio esplode con dentro una parte dell’esercito del malvagio signore, ed una colata di sangue fuoriesce dal tetto come fosse acqua): il che, inevitabilmente, ci autorizza a pensare che Miike non intenda decantare un passato di crudeltà e miserie (che, invece, attrae irrimediabilmente Naritsugu, il cui intento dichiarato è quello, una volta salito ai vertici del governo militare, di restaurare l’epoca della guerra), quanto piuttosto denunciare l’orrore di un potere autoritario che, sgretolandosi, si trasforma in carneficina insensata, priva di qualsivoglia nobiltà o senso morale. Il temibile erede allo shogunato ne è l’emblema: egli è, potremmo dire, fisiologicamente attratto dalla violenza. Il suo piacere è infliggere il dolore, la sofferenza. Il volto pallido, lo sguardo vitreo e il candore delle vesti accreditano l’immagine di un simulacro di uomo, di un essere in carne ed ossa letteralmente estraneo ad ogni forma di pietà o di dolore: paradossalmente, l’unico sussulto di vita l’ha nell’istante in cui la spada di Shinzaemon lo trafigge, ponendolo di fronte all’agonia fisica e, soprattutto, psicologica (la paura della Morte, che egli, credutosi invincibile, assaggia per la prima volta).

Il messaggio politico è chiaro, insomma. Non a caso, gli unici due superstiti sono il nipote di Shinzaemon, Shinrokuro, e il montanaro Koyata: il primo dichiara di essere stato un samurai per troppo tempo e di voler diventare un bandito e salpare per l’America; il secondo, dal canto suo, figura di ribelle che ha sempre manifestato il proprio disprezzo per il codice dei samurai, afferma di volersene tornare dalla donna amata. La battaglia appena terminata, insomma, è il canto del cigno di un evo che ormai è destinato al tramonto. Lo stesso Shinzaemon, prima di morire, ne manifesta la consapevolezza: “fa quello che vuoi della tua vita” è il messaggio che rivolge al nipote. È la fine di un mondo, insomma.

Forte di una fotografia cupa, dalle tonalità grigiastre, di ottimi interpreti (memorabili, in particolare, Kôji Yakusho nei panni di Shinzaemon e Gorô Inagaki in quelli del cattivissimo Naritsugu) e soprattutto di una regia in grado di passare con disinvoltura dai ritmi lenti, pacati, prettamente descrittivi della prima parte a quelli frenetici della seconda, 13 Assassini ha dalla sua anche la capacità di innervare con naturalezza e senza forzature il jidai geki tradizionale con influenze che derivano dal cinema action di Honk Kong, dal western leoniano (la riflessione sull’ambiguità dell’eroismo) e da quello più classicamente americano (il tema dell’amicizia virile), consegnandoci forse l’opera più matura di Miike, cineasta di rara intelligenza e profondità.

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