Arctic Monkeys – Suck It and See

Alex Turner evidentemente non è proprio a suo agio con i climi desertici. Sarà per il caldo, sarà per la solitudine che di solito si respira in quei luoghi, sarà per l’atmosfera immota, che quando scende la notte si carica di un misterioso senso d’attesa. C’aveva già provato, il nostro, a condurre i suoi Arctic Monkeys tra le dune sabbiose. Sotto lo sguardo vigile di Josh Homme, “Humbug”, terzo lavoro della band britannica, aveva spostato l’asse della musica del quartetto verso un sound più acido, con l’ambizione di trasfigurare le nervose vignette post-punk in salsa brit delle origini in bozzetti psych memori delle “Desert sessions” di Mr. Queens of the Stone Age. Operazione sulla carta intrigante, ma che, nella pratica, si era tradotta in un tentativo timido, incerto, che denotava una padronanza superficiale delle regole del genere. Più forma che sostanza, il successore di “Favourite Worst Nightmare” (che, dal canto suo, si era mantenuto fedele al debut del 2006, l’acclamato “Whatever People Say I’m, That’s Why I’m Not”) faceva pensare al classico lavoro di transizione. Si confidava, pertanto, che questo “Suck It and See” risolvesse i dubbi emersi circa l’identità del combo, anche perché sempre nel corso di quest’anno Turner aveva dato alle stampe un EP di sei tracce, “Submarine” (colonna sonora dell’omonimo film di Richard Ayodade), all’insegna di un acustic pop-folk orchestrale dal piglio delicato e persino retrò.

Spiace dire che il ritorno sulle scene delle “Scimmie” si riveli piuttosto fiacco. L’idea era quella di proseguire sulla strada di “Humbug” (senza Homme, però, sostituito da James Ford), ma l’incedere è, se possibile, ancor meno convinto ed anzi, forse persino ritroso. Le dodici tracce cercano di far convivere garage, stoner, psichedelia Sixties e melodie pop tipicamente albioniche, ma finiscono con il sollevarsi raramente dallo stereotipo, rivelandosi il più delle volte piatte ed incolori. She’s Tunderstorm, Black Treackle, Reckless Serenade, Piledriver Waltz (in origine edita su “Submarine”), Love is a Laserquest, Suck It and See e That’s Where You’re Wrong sono ballad tanto graziose quanto impersonali. Non va meglio con i momenti più energici. Brick by Brick, The Hellcat Spangled Shalalala, Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair, Library Pictures e All My Own Stunts, per quanto ben costruite sfruttando il solito ventaglio di trucchi (riffoni truci, divagazioni lisergiche, bassi oscuri, cambi di tempo, tribalismi), raramente vanno oltre l’imitazione.

Un lavoro ampiamente deludente, insomma, che non scioglie gli interrogativi sul futuro di Turner, Cook, O’Malley e Helders, ponendoci dinanzi una netta involuzione. La sensazione è quella di un gruppo stanco, a corto di idee. Sarà bene che gli inglesi trovino al più presto il bandolo della matassa: il rischio è che finiscano con l’essere archiviati sin d’ora sotto la voce “promesse mancate”.

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