Il sound dei Wild Beasts è un coacervo d’influenze, un calderone in cui Peter Gabriel, Kate Bush, Blue Nile,Antony and The Johnsons ed Elbow si mescolano senza soluzione di continuità. Lontani dall’enfasi pomposa e un po’ ottusa di tanti loro colleghi indie e da certo cerebralismo decostruzionista di tanti art-rocker in circolazione, Hayden Thorpe, Ben Little, Tom Fleming e Chris Talbot hanno imbastito un intreccio di trame sintetiche ed acustiche le cui coloriture “dark” sono declinate con un piglio che, anche quando indulge sul melò, non smette mai d’essere sofisticato. Un gran bel pastiche, insomma, che deve all’intelligenza della sua costruzione e alla bellezza cristallina di certe melodie la sua capacità di imporsi all’attenzione dell’ascoltatore.
Le pulsazioni digitali di Lion’s Share, che fa pensare ad Hegarty (la vocalità di Thorpe) dopo una cura a base di caffeina, e lo smaccato richiamo al dancefloor di Bed of Nails mettono subito le carte in tavola, fissando il canovaccio lungo il quale si muoveranno le altre tracce. Deeper (cantata da Fleming, il cui registro ricorda quello di Guy Gurvey) innesta una melodia avvolgente su un beat scarno, dall’incedere lento, immergendola in una coltre leggera d’elettronica. Ma è con Loop the Loop, una nenia ipnotica a base di chitarra folk, pochi tocchi di piano e synth, cantata da Hayden col suo tipico piglio drammatico, che il disco verga il suo primo passaggio memorabile. Tribalismi ed tentazioni ambientali contraddistinguono Plaything, consegnandoci un altro momento memorabile, ancora una volta in bilico tra struggimento romantico e febbrile sensualità. Rarefatta e malinconia, Invisible piacerebbe tanto agli Elbow che a Paul Buchanan (i “fiati” sintetici), non fosse per quel tratto ossessivo che fa comunque capolino. Altro numero di gran classe, Albatross indulge in un fatalismo disperato che non può non strappare un brivido. Che l’elemento ritmico sia una delle caratteristiche preminenti dell’album dovrebbe essere a questo punto più che evidente, ma ci pensa Reach a Bit Further a sottolinearlo: su un tappeto percussionistico ipnotico si intrecciano, splendidamente, il baritono caldo di Fleming e l’ugula di Thorpe, disegnando un’altra melodia da incorniciare, in cui la strumentazione si limita, come sempre, a tenui pennellate, rimanendo sempre in disparte. Tentazioni “sigurrosiane” si affacciano nelle estasi di Burning, altro piccolo carosello mesmerizzante all’insegna di una composta disperazione, e soprattutto nella coda della superba The End Come Too Soon, saggio di (miracoloso) equilibrismo tra nevrosi e grazia sublime.
Terza fatica dei Wild Beasts (i precedenti lavori, “Limbo, Panto” e “Two Dancers” risalgono, rispettivamente, al 2008 e al 2009), “Smother” è un album assai intrigante, contrassegnato da alcuni momenti di lapalissiana bellezza, che ha nella contaminazione di stili e toni il suo punto di forza. Il suo unico difetto è che non sempre riesce a scaldare il cuore come vorrebbe, ma la grazia e la personalità dell’insieme sono innegabili.