Eddie Vedder – Ukulele Songs

Evidentemente, l’infatuazione di Vedder per il folk è molto più seria di quanto pensassimo. A dire il vero, avevamo avuto sentore di un certo interesse quando, un paio d’anni fa, c’eravamo trovati tra le mani l’ultimo lavoro dei Pearl Jam, il deludentissimo “Backspacer”. L’album (il nono nella carriera della storia grunge-band americana), nonostante un paio di trascinanti rock’n’roll stradaioli (Gonna See Some Friends e Supersonic) ed una ballad pop di buona fattura (Force of Nature), aveva la sua vera ragion d’essere nei due momenti folk della scaletta, le meravigliose Just Breathe e The End, entrambe pennellate dal solo frontman. Il buon Eddie, evidentemente, non aveva ancora smaltito la sbornia di “Into the Wild”, il suo primo album solista, colonna sonora dell’omonimo (e bellissimo) film diretto da Sean Penn nel 2007. Le due track si riallacciavano a quello score recuperandone il mood dolente, malinconico, da songwriter d’altri tempi, con tanto d’arrangiamento che faceva leva esclusivamente su voce, sei corde acustiche ed archi.

A distanza di qualche anno, il cantautore americano ci riprova con questo “Ukulele Songs”, il quale, tuttavia, non riesce a rinverdire i fasti delle prove sopracitate. Anzi, in effetti neppure ci prova. La sensazione che si ha ascoltando le sedici tracce (che occupano complessivamente meno di 35 minuti) è quella di un divertissement d’autore, un’operina volutamente disimpegnata, nella quale prevale una vena più leggera e persino retrò rispetto ai lavori precedenti. È un Vedder che quasi non t’aspetti quello che intona le bucoliche e tenere confessioni diWithout You, More Than You Know, Broken Heart, Longing to Belong, Sleepless Night (cover degli Everly Brothers registrata assieme a Glen Hansard),Once in a While, Tonight You Belong to Me (in duetto con Cat Power) e Dream a Little Dream (un classico degli anni ’30 a firma Andre, Schwandt e Kahn, inciso, tra gli altri, da Ella Fitzgerald, Bing Crosby, Dean Martin e The Mamas & Papas). I modelli, più che Dylan e Springsteen, sembrano essere Nick Drake, Donovan e Gordon Lightfoot – insomma, il folk dei ’60s più “gentile”, piuttosto che quello politicamente impegnato del “menestrello di Duluth” e del Boss.

A risaltare, però, non sono tanto le melodie o l’accompagnamento strumentale (affidato, per altro, al solo ukulele, con qualche comparsata del violoncello) quanto piuttosto la voce. Vedder, quando si limita a sussurrare o a modulare composto il suo baritono roco, caldo, avvolgente, fa persino meglio di quando strepita ed esplode di rabbia incontrollata. L’intensità e la capacità evocativa, unite ad una notevole padronanza della tecnica, consentono alla sua vocalità di imporsi nettamente al centro dell’attenzione, con un effetto a tratti persino ipnotico.

Nel complesso, siamo difronte ad un disco grazioso ma anche sommamente inutile. Divertente perché divertito, “Ukulele Songs” è un album genuino, ma di poche pretese. Da uno come Vedder, insomma, era lecito attendersi molto di più. Sarà interessante verificare cosa partorirà, in futuro, assieme a Gossard, McCready, Ament e Cameron: la sensazione è che al nostro, di chitarre elettriche distorte, ritmiche possenti e progressioni enfatiche interessi davvero poco, ormai.

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