The Blue Nile, esistenzialismo in salsa (synth)pop

L’anno è il 1981. Paul Buchanan (voce, chitarra), Robert Bell (basso) e Paul Joseph Moore (tastiere, sintetizzatore), appena usciti dall’Università di Glasgow, dove si sono laureati rispettivamente in Letteratura inglese, Ingegneria elettronica e Matematica, decidono di dar vita ad una band: nascono così i Blue Nile. Gli inizi sono, neanche a dirlo, difficili. Il primo singolo, I love this life, pubblicato per l’etichetta che essi stessi hanno fondato, la Peppermint Records, riscuote scarso interesse: quando poi la RSO, che nel frattempo ha ristampato il brano, viene assorbita dalla Polygram, esso scompare definitivamente dalla circolazione. È solo grazie all’interessamento della Linn Electronics (un’azienda scozzese specializzata in apparecchiature hi-fi e sistemi audio) che la formazione riesce ad incidere, nel 1983, l’album d’esordio, A walk across the rooftops. La genesi dell’opera è interessante. Uno dei rappresentati della Linn, Charlie Brennan, grazie alla mediazione del produttore e tecnico del suono Caulum Malcom (che aveva già lavorato sull’album “fantasma” dei Josef K, Sorry for laughing, ed in seguito collaborerà con Prefab Sprout e Simple Minds), ascolta un pezzo composto nel frattempo da Bell e Buchanan, Tinseltown in the rain, rimanendone impressionato. Brennan sta cercando qualcuno che possa attestare l’alta qualità degli impianti di registrazione della compagnia e perciò commissiona ai tre l’incisione di una track. A walk across the rooftops sbalordisce quelli della Linn al punto tale da indurli a finanziare la realizzazione di un intero LP e a fondare una casa discografica, la Linn Records, per la quale pubblicarlo.

Il full-lenght (che si avvale del contributo del batterista Nigel Thomas) è uno dei capolavori del synth-pop. In controtendenza rispetto ai connazionali Orange Juice, Josef K e Atzec Camera (giusto per citare i nomi più famosi della scena scozzese di quegli anni), i Blue Nile “nascondono” le chitarre, puntando tutto su tastiere, sintetizzatori e basso e concedendo alla sei corde (elettrica) solo qualche occasionale comparsata. Il risultato, tuttavia, è ben lontano dal gelido futurismo di certa new-wave o delle sue propaggini new-romantic: le sette perle della raccolta sono pervase da un calore che, derivato dall’influenza del soul Motown, “umanizza” il digitale. Snelle, essenziali e rarefatte, le partiture firmate da Buchanan e da Bell sono impreziosite dal timbro emozionale del singer e, soprattutto, dal sound atmosferico delle keyboard, che diventerà uno dei loro marchi di fabbrica.

A walk across the rooftops apre con il gemito di una tromba, ma è l’intreccio tra le rimbombanti linee funky del basso, un pizzicato di violini e un beat sintetico a costituire il tappeto su cui il cantante intona una litania depressa; il refrain, struggente, fa leva su un fraseggio thrilling di archi, mentre nel finale si affaccia anche un vibrafono. Tinseltown in the rain sfodera un battito da discoteca, orchestrazioni romantiche ed un ritornello arioso; assieme a Stay (il cui primo demo risale all’era Night by Night, il duo che Buchanan e da Bell avevano formato prima di incontrare Moore) si tratta del brano più “facile” della raccolta: in entrambi i casi, però, siamo di fronte a due esempi di melodismo d’alta scuola. From rags to riches annoda mirabilmente percussionismi metronomici, oscure progressioni di tastiere, rintocchi tribali del basso, un synth nevrotico degno di Terry Riley e una tenera nenia, carica delle speranze e della voglia di rivalsa di un giovane dei sobborghi («People are leaving the squalor / They’re leaving the houses and fires / And starting out / We find the waiting country»). Se la musica del terzetto è spesso accostata all’ambient un motivo c’è: Easter parade, struggente elegia per piano e voce (e qualche soffio di elettronica eterea), con la quiete immota che la pervade, col suo minimalismo esasperato ed estenuato, è il vertice dell’astrattismo degli scozzesi e, insieme, dell’arte cinematica di Buchanan, capace di tratteggiare con poche pennellate un microcosmo di desolazione urbana, abilità che ne fa l’equivalente in musica di un Hopper («In hallways and railway stations / Radio across the morning air / A crowd of people everywhere / And then the people, all running forward»). Heatwave, dal canto suo, è un altro lento da manuale, segnato dall’immancabile cadenza disco, mentre Automobile noise sublima a colpi di beat scarni, clangori metallici e lievi tocchi di keyboard l’alienazione della metropoli postmoderna, ricavandone un affresco di sconsolata intensità, con le liriche a confermare l’approccio “registico” di Buchanan alla narrazione.

Romantiche, passionali, venate di un esistenzialismo mai pedante ed estremamente suggestive proprio perché prosciugate da ogni barocchismo, queste partiture brillano di uno slancio estatico, che ha il potere di trasfigurare lo spleen e la disperazione, redimendole fino a trasformarle una sorta di pacata celebrazione della bellezza in tutte le sue forme.

L’album raccoglie ampi consensi da parte della critica, ma vende assai poco, affacciandosi solo di sfuggita nelle classifiche britanniche. Nonostante ciò la Virgin (che nel frattempo ha ottenuto dalla Linn la licenza per la distribuzione di A walk Across the rooftops) spinge Buchanan e compagni a ritornare in studio di registrazione per incidere nuovo materiale. Il trio non ha altri pezzi già pronti: occorre, perciò, ricominciare da zero, ma la pressione è tanta. Dalle session viene fuori qualche buona idea, ma niente che possa accontentare un perfezionista come Buchanan (divenuto, nel frattempo, il compositore unico della band, ruolo che manterrà da qui in poi): stando a quanto dichiarato dall’artista, il risultato del biennio passato in studio è così terribile che i nastri vengono presi e bruciati. Anche il 1987 è per buona parte improduttivo, ma alla fine l’ispirazione arriva: nel giro di un anno, Paul scrive le canzoni e nel 1989 Hats viene finalmente pubblicato.

Prodotto, come il precedente, dagli stessi Blue Nile (con il fidato Calum Malcom nelle vesti di sound engineer, accoppiata che si ripresenterà anche nei lavori successivi), l’LP è, se possibile, persino superiore al suo pur brillante predecessore. Ritagliatosi il ruolo di leader, Buchanan smussa certe asperità armoniche di A walk across the rooftops per pennellare sette ballate sintetiche all’insegna di melodie calde, soffuse, dall’intensità quasi tragica. Ibridando il Philly-sound di Marvin Gaye (uno degli idoli dichiarati dello scozzese), i Roxy Music di Avalon (1982), i Talk Talk di Colour spring (1986), Van Morrison, gli Steely Dan ed il jazz di Chet Baker, il songwriter architetta una manciata di partiture lunghe e complesse (le track superano praticamente tutti i cinque minuti), propulse da battiti lenti ed immerse in fraseggi trasognati di synth e tastiere. Il mood è forse ancor più pensoso e sconsolato rispetto al passato. Eppure, Buchanan più che mai qui è in grado di elevare il proprio tormento interiore, di innalzarlo ad un livello superiore, di trasformarlo in rapimento dei sensi.

A dimostrarlo, gemme come Over the hillside, From a late night train (che, nella sua essenzialità, riprende il canovaccio di Easter parade) e, soprattutto la lacerante Let’s go out tonight, da consegnare agli annali del pop. Domate le linee di basso e tenute ancora in disparte le chitarre, Hats è un florilegio di orchestrazioni da Broadway (Over the hillside), ritmiche danzabili (l’appassionata The donwtown lights, Saturday night e Headlights on the parade, le cui pulsazioni profonde, mediate da limpidi tocchi di keyboard, rimandano a certi passaggi del precedente lavoro), notturni “ambientali” (From a late night train che rimanda al Tom Waits più spoglio) e struggimenti contesi tra trame folk, influssi soul e carezze jazz (Let’s go out tonight).

Buchanan intona i suoi quadretti di solitudine e malessere esistenziale con un registro che oscilla tra il sussurro confidenziale e un piglio più veemente. I personaggi di queste vignette hopperiane sono gli everyman, uomini qualunque soffocati da un tedio e da una malinconia senza fondo, intrappolati nel tran tran di una vita alienante e spossati da una terribile assenza di significato («Workin’ night and day / I try to get ahead / But I don’t get ahead this way», recita Over the hillside). L’unica possibilità di salvezza è l’amore: «I need love to be true», canta Buchanan in Seven a.m. (quasi un outtake di A walk across the rooftops). Solo l’amore può mettere il mondo “nel verso giusto” (Saturday night): e quando svanisce, lascia dietro uno strascico di dolore irredimibile, che quasi si fa fatica a rassegnarsi («It’s over now / I know it’s over / But I can’t let go», ripete sconsolato il singer in From a late night train).


Al di là dello sfoggio di talento melodico e lirico che lo contraddistinguono, Hats, a ben vedere, ha il suo punto di forza nella straordinaria tensione emotiva che le partiture, per mezzo di pochi, impressionistici tocchi di elettronica (mai così “umana”), trasmettono con una facilità disarmante. Non deve perciò stupire che il disco, oltre ai consensi degli addetti ai lavori, stavolta guadagni anche la vetta della chart inglese, raggiungendo il 12° posto nell’autunno nel 1989. L’LP fu un successo anche negli USA, Paese nel quale, fino a qualche mese prima, i Blue Nile erano sconosciuti. Rickie Lee Jones, grande ammiratrice degli scozzesi, li sceglie come opening act per il suo tour del 1990, incidendo anche una cover di Easter parade, pubblicata come b-side di Headlights on the parade, secondo singolo estratto da Hats dopo The downtown lights, seguito poi da Saturday night. Durante l’esperienza statunitense del ’90, Buchanan intreccia una relazione con l’attrice Rosanna Arquette, diventando così bersaglio delle cronache mondane (la relazione durerà, però, solo un paio di anni).

Come al solito, ci vuole parecchio tempo perché i tre producano un’altra raccolta di canzoni. Peace at last esce infatti per la Warner nel 1996. Ancora una volta è l’isolamento la condizione che permette la nascita delle nuove canzoni. Nel ’92, dopo la promozione di Hats, la band è esausta: decide perciò di comprare l’equipaggiamento adatto e di viaggiare per un po’, per allentare lo stress e il senso di claustrofobia che il successo ha recato con sé. Durante le varie tappe di un percorso che li porterà in Francia, Italia, Olanda e di nuovo negli Stati Uniti, Buchanan scrive e registra con l’aiuto dei due amici/compagni d’avventura svariati pezzi, ma solo nel ’95 la scaletta del lavoro è definita.

Le nuove canzoni rappresentano, per certi versi, una piccola svolta. Nonostante rimanga inalterato l’impianto sostanzialmente elettronico, in Peace at last è la chitarra di Buchanan (quella acustica, in particolare) a conquistare in più d’una occasione il centro della scena. Rispetto al predecessore, la sensazione è quella di una maggior immediatezza. Il tono è generalmente meno depresso, a tratti persino più brioso; per la prima volta, poi, ai sintetizzatori si affiancano archi veri. Il tentativo, insomma, è quello di scrivere un album più “pop” rispetto alle prove passate, ma nonostante il talento cristallino di Buchanan si palesi in più di un’occasione, molte composizioni denotano un leggero appannamento.

Ad ogni modo, i Blue Nile sono sempre un passo avanti rispetto agli emuli. Lo strumming vivace ed incisivo di Tomorrow morning fa da supporto ad una melodia essenziale ma ugualmente evocativa. Battito lento e ritmiche funky sono gli ingredienti principali di Sentimental man, la quale, tra l’altro, sfoggia una preziosa performance all’elettrica di Buchanan, dimostrando come il nostro sia anche un ottimo strumentista. Stessi ingredienti per Holy love, la quale, però, fa persino meglio, affiancando ad una prima parte oscura, a base di beat sintetici, bassi pronunciati e vocals in falsetto, una seconda arricchita dall’ingresso di chitarre ed orchestrazioni: nel complesso, il pezzo ammicca al Prince di Sing o’ the times. Soon è un lento intriso di languida malinconia che strizza invece l’occhio alla sensualità di un Gaye. Ma il colpo al cuore arriva con Family life, una commossa elegia per piano ed archi (Craig Armstrong) che, nella semplicità della sua costruzione, riesce a scavare nel profondo, a penetrare quell’angolo oscuro dell’animo in cui nostalgia, placida quiete e dolore si confondono. Quest’ode alla vita familiare rappresenta uno dei massimi risultati raggiunti dal songwriting di Buchanan e, insieme, il pezzo che meglio riassume lo spirito “domestico” che pervade il disco, improntato all’esaltazione delle gioie quotidiane, della tanto vituperata “ordinarietà”.

Le restanti tracce, per quanto ben congegnate e dunque, sotto il profilo strettamente compositivo, inappuntabili, non riescono a graffiare come vorrebbero. Peccato, in particolare, per Happiness, una ballad d’ascendenza folk (posta proprio in apertura dell’opera, quasi ad evidenziarne sin da subito il feeling più chitarristico) la quale, tuttavia, conclude con un coro gospel che appare troppo marcato rispetto al tono lieve che il pezzo aveva tenuto fino a quel momento. L’incipit del testo («Now that I found peace at last / Tell me, Jesus, will it last?») e lo stesso titolo (così come, in effetti, il titolo del CD) sono abbastanza indicativi della serenità del periodo in cui le composizioni sono nate: ecco spiegato il tono meno desolato della raccolta.

Nonostante il passaggio ad una major ed una ritrovata serenità interiore, Peace at last è ben lungi dall’essere un album commerciale, patinato o “furbo”: indubbiamente, il CD risente di un lieve calo d’ispirazione, ma in fondo il suo unico, vero torto è quello di venire dopo un capolavoro come Hats.

Il full-lenght raggiunge a malapena la ventesima posizione nella classifica britannica, mancando completamente quella statunitense, anche a causa della scarsa promozione della Warner. Sostanzialmente, a partire dal ’97 i Blue Nile si ritrovano senza una casa discografica: fondamentale, al riguardo, l’arrivo di Ed Bicknell, primo, vero manager della band in vent’anni di vita, il quale risolve i problemi contrattuali del trio con la label americana, consentendo a Buchanan, Bell e Moore di approdare in casa Sanctuary. Nel frattempo, prende lentamente forma quella che sarà la prossima release della formazione. Il punto di partenza sono tre canzoni, Days of our lives, I would never e Broken loves, che Paul ha composto durante il peregrinare della band di metà anni ’90 tra Europa e USA. High (2004), dunque, da un lato risente innegabilmente di Peace at last, ma dall’altro recupera sonorità ed atmosfere di Hats, generando un riuscitissimo connubio.

Le nove partiture emanano un fascino senza tempo, che solo i classici hanno. La dolente The days of our lives, con il pattern minimalista delle tastiere ed il tipico sound orchestrale dei sintetizzatori, ci riporta immediatamente alle atmosfere del 1989. Buchanan, col suo crooning, dà vita ad una narrazione cinematica, fatta di dettagli estremamente indicativi dello spaesamento, della solitudine e dell’alienazione dell'”uomo della strada”. Ancora una volta, la salvezza è l’amore, ma non c’è niente di retorico nella declamazioni dello scozzese: la sua filosofia dell’umile, del quotidiano ha proprio nell’understatement la sua capacità di suggestione. «An ordinary miracle / Is all we really need / An ordinary miracle / You and me»: semplice, no?

I would never è un’altra piccola meraviglia, una nenia tenue, di quelle da incorniciare. Più vibrante Broken loves, che incanala la disperazione esistenziale in un crescendo coinvolgente, di lapalissiana bellezza, in cui la parte da leone la fa la una keyboard martellante, che tratteggia una progressione di accordi che si ripete uguale a se stessa. Ma è forse Because of Toledo il primo, vero capolavoro dell’album, un superbo motivo folk (arrangiato prevalentemente per chitarra acustica e voce) impreziosito da un testo evocativo, giocato su stacchi di montaggio e vignette che privilegiano particolari anche crudi («The lipstick and the cocaine traces») che fungono da metonimia di una sofferta condizione esistenziale. She saw the world recupera un tono più grintoso mentre High precipita in una malinconia da prime luci dell’alba, di quella che ti coglie dopo una notte insonne: Buchanan filosofeggia sul nonsense di giornate soffocate dalla ripetitività («Look at the morning people / Going to work and fading away / Why don’t we stop the traffic?»), rimpiangendo quel “qualcosa di buono” che “si è perso per strada”. Nell’enfatico «we could be high» del ritornello si mescolano, impagabilmente, esortazione e rassegnazione.

L’r’n’b impeccabile di Soul boy e l’estatica Everybody else (che, con la sua cadenza metronomica ed il fascio di tastiere ad avvolgere una tenera melodia, sembra uscita direttamente da Hats), anticipano quello che con ogni probabità è l’highlight assoluto del disco, il lento e straziante notturno soul di Stay close, tra i vertici assoluti del songwriting di Buchanan.

Recuperato l’impressionismo sintetico, il tono sublime ed il registro da “cuore infranto” che avevano fatto grandi “A Walk across the rooftops e soprattutto il suo successore, High riporta i Blue Nile ad uno stato di grazia. Nel momento in cui vi scriviamo non si hanno notizie di future release della band: quel che è certo è che Buchanan, rintanato nel suo studio di Glasgow, continua a cesellare le sue delizie di alto artigianato, incurante delle mode e dei fasti dello show-biz. Non è dato sapere se e quando le ascolteremo: quel che è certo è che, con quattro album in trent’anni di carriera, lo scozzese s’è ritagliato a pieno titolo un posto nella storia del pop più raffinato, assurgendo, meritatamente, al rango di culto.

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