La salvezza dell’Impero passa per un discorso. A metterla così, si rischia di scadere nel ridicolo. Ma se pensate che l’Impero in questione è quello britannico della prima metà del Novecento ed il discorso (radiofonico) quello con cui Re Giorgio VI, afflitto da una grave forma di balbuzie, deve annunciare l’entrata in guerra contro la Germania nazista, allora la faccenda assume contorni assai drammatici. I fatti (storicamente veri) sono noti: il sovrano, successo al fratello Edoardo VIII (il quale aveva abdicato per poter sposare l’americana e pluridivorziata Wallis Simpson), per curare il problema che l’affliggeva da quando aveva cinque anni si rivolse ad un logopedista, l’eccentrico Lionel Logue, riuscendo a guarire e a tenere un’impeccabile orazione.
Il film di Tom Hooper riprende questa vicenda, intrecciando un dramma personale con il dramma di un’intera epoca, in procinto di scrivere una delle sue pagine più buie, e ricavandone un affresco di grande fascino ed intensità. Giorgio VI (Colin Firth) è un individuo complessato, che maschera le proprie insicurezze dietro le sfuriate d’orgoglio e la compostezza dell’etichetta. Cresciuto da un padre rigido (che gli aveva sempre preferito il fratello) e da una madre distaccata, e schernito sin da bambino per il suo difetto, William (alias Bertie) è tutt’ora oggetto di costanti umiliazioni pubbliche. Ad accorrere in aiuto di questo eroe edipico, combattuto tra il desiderio di una vita “normale” e l’orgogliosa rivendicazione della propria aristocratica diversità, la moglie-madre Elena Bonham Carter e il già citato Logue (Jeoffrey Rush), un po’ esperto di disfunzioni del linguaggio e un po’ mago, un po’ padre e un po’ amico.
Sullo sfondo, l’Inghilterra (e l’Europa) della seconda metà degli anni ’30, epoca di totalitarismi ma anche dello sviluppo di mezzi di comunicazione di massa come il cinema e la radio. È proprio quest’ultimo lo strumento attraverso cui la voce del sovrano giunge nelle case dei sudditi. Il film, dunque, gioca sulla sproporzione tra l’immenso apparato di trasmissione in broadcasting ed il difetto oratorio del protagonista che, in un certo senso, sembra suggerire il potere annichilente, spersonalizzante dei media («Let the microphone do the work» è il consiglio dei primi “esperti” a Bertie).
Ben scritto, venato di humor, interpretato da un trio di attori magnifici, diretto con un pizzico di eccentricità che non guasta (l’uso del grandangolo, le prospettive deformanti, i primi piani un tantino stranianti), Il discorso del re sarebbe un perfetto premio Oscar (ben 13 le candidature).