Coraggio. Per registrare un disco come “Wow” ci vuole decisamente coraggio. Perché quando centinaia di migliaia di fan ti seguono da dodici anni, attratti dal tuo rappresentare un punto di contatto tra i Nirvana, i Kyuss e i Radiohead di Creep (senza dimenticare i Marlene Kuntz) e tu gli dai in pasto un album di ballate psych-pop martoriate ed “esplose”, allora significa che hai fegato da vendere. Il grande salto i Verdena l’avevano fatto con “Requiem” (2007), complicando il loro grunge/indie-rock con soluzioni lisergiche e post: ne avevano ricavato un affascinante affresco elettrico, percorso da linee all’apparenza aspre e spezzate le quali, tuttavia, si congiungevano in forme bizzarramente armoniche, da cui si sprigionava un senso di infinita malinconia. Si credeva, dunque, che il serpente avesse definitivamente cambiato la propria pelle, che a quella mutazione sarebbe seguito giusto un piccolo assestamento, non un “terremoto” estetico della portata “Wow”.
In questo viaggio ultrasonico non ci sono “valvonauti” o “lune” a guidarci; o, per meglio dire, ci sono, ma scomposti, rallentati, inaciditi e desolati, occultati sotto una coltre polverosa di pianoforti, sintetizzatori, chitarre processate che urlano selvagge, inghiottiti da un buco nero che ha fagocitato pop, rock, folk, psichedelia e prog e ne ha restituito un ibrido alieno, dal nome sconosciuto. Alberto e Luca Ferrari e Roberta Sammarelli, insomma, con il loro quinto lavoro di studio sono riusciti nell’impresa di reinventarsi completamente pur mantenendo intatta la propria identità, cosa che riesce solo ai musicisti veri, a quelli che, oltre al coraggio di cui parlavamo all’inizio, posseggono anche il talento per supportare adeguatamente le proprie ambizioni. Lo stream of consciousness musicale lungo ventisette tracce di “Wow” è qualcosa di estremamente potente, destabilizzante: ti ci immergi con tutto te stesso, sperando di trovare il proverbiale filo di Arianna che ti conduca fuori dal labirinto, salvo scoprire quasi subito che potrai uscirne solo quando anche l’ultimo brano sarà terminato. Nel frattempo, devi rassegnarti ad andare alla deriva.
Ma è un piacere. Anche se sul percorso si incontrano Razzi Arpia Inferno e Fiamme: perché l’esorcismo c’è, ed ha le sembianze di una preghiera psych-folk dall’incedere cadenzato (che fa il verso, in alcuni passaggi, agli struggenti rapimenti di Thom Yorke). Nel mondo di “Wow”, anche quando il cielo sembra limpido (la nenia ariosa ed “orchestrale” di Scegli Me), le tenebre possono far capolino in un batter di ciglio: Loniterp, ad esempio, è un indie-rock che gioca con accellerazioni e rallentamenti, propulso da un basso oscuro e squassato da terribili deflagrazioni, che ci trascinano, volenti o nolenti, nel caos free di una jam lisergica. Mi Coltivo, dal canto suo, è imperniata su chitarre processate ed asperrime, mentre Adoratorio alterna passaggi tra Air e Radiohead a scariche post-grunge velenosissime. Un tappeto di pulsazioni galoppanti ci introduce al cospetto di Miglioramento, il cui ritornello esplode di sei corde ruggenti, per poi rifugiarsi in un deliquio sospeso e spiazzare con continui cambi di tempo, che conferiscono al pezzo sfumature progressive (anche se la magniloquenza dell’insieme fa pensare agli Arcade Fire). La virulenta nube elettrica di Lui Gareggia ci avvolge per soli 1′ e 44” e prepara il terreno per Le Scarpe Volanti, un tre quarti carico di pathos, condotto da un synth acido tra le cui maglie si affaccia un vortice oscuro, che culmina in una litania per piano e voce che sembra provenire da distanze siderali. La dilatata malinconia a tempo di valzer di Castelli per Aria è seguita da Sorriso in Spiaggia, una ballata dal tessuto ritmico/armonico sconnesso, divisa in due frazioni (Part 1 e Part 2), contraddistinte da pianismi martellanti, impennate sonore, passaggi sinistri e stasi acide.
A chi si fosse chiesto dove sia finito il Seattle-sound dei primi dischi ci pensa il pugno nello stomaco heavy di Attonito a fornire la risposta. È Solo Lunedì apre con loop di voci fantasmatiche che cedono poi il passso ad una progressione pesante ed oscura di piano, frustata da una batteria implacabile e sfregiata da una chitarra iperdistorta e graffiante, con i coretti che aggiungono una sfumatura straniante. Grattacielo è una melodrammatica ballad che, ad un tratto, sfodera persino ritmi in levare (così come la sfuggente e scatenata Rossella Roll Over). Le supersoniche bordate stoner di Sul Ciglio (un delirio elettrico lungo meno di un minuto, preceduto dal minuetto sintetico di 12,5 mg) anticipano la lenta e depressa Letto di Mosche. La Volta è un turbine di epilessi sintetiche, drumming ossessivi e spezzati e rasoiate di sei corde urlanti, manipolate: ad uno strumentale del genere, non poteva che seguire la catarsi, rappresentata dalla struggente melodia di Lei Disse (Un Mondo Del Tutto Differente), una delle vette assolute della band.
Con “Wow”, insomma, i Verdena hanno realizzato il loro “Mellon Collie”: un album magniloquente, oscuro, un magma ribollente di suoni ed umori il cui punto di forza non sta solo nell’espressività della scrittura, ma anche nella sua capacità di tener assieme spunti estremamente eterogenei in modo da non soffocare la ricchezza dell’insieme ma neppure sprofondare il disco nella schizofrenia sonora. Ovviamente, non possiamo sapere cosa faranno in futuro i tre bergamaschi: certo è che “Wow” rappresenta una tappa talmente tanto significativa nella loro carriera che ogni dietrofront rischierebbe di apparire artisticamente incongruente e, dunque, inaccettabile. Per ora, comunque, concentriamoci sul presente e godiamoci questo mirabile esempio di architettura pop-rock postmoderna che è “Wow”, uno dei lavori più belli usciti nel corso degli ultimi dodici mesi.