Fujiya & Miyagi – Ventriloquizzing

Contrariamente a quanto si possa pensare, Fujiya & Miyagi non sono un duo e non sono nemmeno giapponesi. David Best (voce, chitarra), Steve Lewis (sintetizzatore) e Matt Hainsby (basso) provengono infatti da Brighton, Inghilterra. Pur avendo esordito nel 2005 con “Electro Karaoke in the Negative Style”, è con il successivo “Trasparent Things” (2006) che il grande pubblico ha cominciato a conoscerli. L’album (un’operina graziosa ma tutt’altro che trascendentale) perfezionava quella miscela di krautrock (versante Can, Neu! e primi Kraftwerk), lounge Sixties ed elettronica anni ’90 (Orb, Stereolab, Aphex Twin) che aveva contraddistinto il debut, incanalando il tutto in brani che rivelavano una sensibilità smaccatamente pop.

Dopo il piatto “Lightbulbs” (2008), ci si attendeva da “Ventriloquizzing” quantomeno un’impennata d’orgoglio, se non un vero e proprio salto di qualità. Il trio, però, ha deluso ampiamente le aspettative. Le undici tracce mostrano un’evidente carenza di idee, denotando una stanchezza in fase compositiva a tratti persino imbarazzante. Gli ingredienti sono sempre i soliti: pattern ritmici ripetitivi, minimalisti, synth discreti (ma con impennate acide) e melodie ipnotiche, qui più oscure che in passato. Tuttavia, mentre in “Transparent Things” l’operazione risultava, nel complesso, almeno divertente, qui il trio precipita nella noia: Best, Lewis e Hainsby si limitano a citare se stessi ed il sound dei lavori precedenti, cimentandosi in un’operazione pateticamente autocelebrativa (assolutamente fuori luogo, per altro, dato che i nostri sono tutt’altro che monumenti della scena elettronica – ed anche in quel caso, a ben vedere, avremmo avuto da ridire).

Il fascino che promana dalle undici composizioni dell’LP dura un battito di ciglia: ci si accorge ben presto di come, dietro queste stratificate architetture sintetiche, manchi del tutto la sostanza. L’imperiosa title-track (che si apre con sfumature orientaleggianti di tastiere) e Sixteen Shades of Black & Blue, con il suo incedere marcato, i synth aspri ed il suo umore dark, affascinano ma non rapiscono; leggermente meglio fa forse la ballabile Cat Got Your Tongue, che sfodera un bel battito funky. Che gli inglesi puntino, in fondo, sull’appeal del dettaglio, sullo charme del frammento, lo dimostra appieno Taiwanese Roots, che strizza l’occhio all’ascoltatore con la “trovata” di qualche saltellante nota di piano che si infila tra le maglie di una litania oscura, sospesa.

Yoyo è il trionfo del manierismo, mentre Pills quantomeno vanta una costruzione interessante, giocata sul contrasto tra vocals ultradepresse e beat secchi e veloci, coadiuvati da bassi rotondi e punteggiature delicate di keyboard. OK alza un po’ il livello del disco, regalandoci una nenia orientaleggiante appena sussurrata ed increspata da sintetizzatori da incubo, che fanno capolino di tanto in tanto. Battito metronomico, chitarrine nervose, fraseggio di organo ed elettronica sporca sono gli ingredienti alla base di Minestrone, che, in chiusura, cede all’isteria. Split Milk e Tinsel & Glitter potevano tranquillamente rimanere fuori dall’album per quanto sono insignificanti. Universe, dal canto suo, è una lenta ed ipnotica marcia in crescendo, con tanto di spettrali cori femminili e synth acidi, la quale, tuttavia, non riesce a trasmettere quel senso di inquietudine e di disagio di cui, nelle intenzioni, dovrebbe essere portatrice.

L’arte di Fujiya & Miyagi, insomma, è tutta di superficie. Si nutre di un accumulo di cliché di facile presa, buoni solo ad ingannare un pubblico ingenuo, che s’è perso buona parte della storia della musica elettronica. Il trio inglese, insomma, con quest’ultimo lavoro ha giocato sporco, più sporco del solito, cercando di spacciare per “nuovo” e “fresco” un prodotto scolastico e, nella sua totale mancanza di verve, addirittura senile. “Ventriloquizzing” segna un involuzione preoccupante, che non dovrà far riflettere i nostri eroi. Non sembrano esserci molte alternative, al riguardo: o si cambia o si muore. Col prossimo disco, Best, Lewis e Hainsby devono riuscire a tirar fuori dal cilindro qualcosa di completamente diverso dalla solita, innocua e poppeggiante accozzaglia di minimalismi digitali corretti con un pizzico di psichedelia: il rischio, altrimenti, è di non sentir più parlare di Fujiya & Miyagi…

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