Bryan Ferry – Olympia

Per Brian Ferry, gli ‘80 non sono mai passati. Ed è facile comprendere il perché. Lui, prototipo del dandy impeccabile, quel decennio l’ha segnato profondamente, non solo con le ultime, sintetiche propaggini dell’avventura Roxy Music (pensiamo ad Avalon, 1982), ma anche con una serie di hit soliste sapientemente cesellate, tra le quali la parte da leone la fa sicuramente Boys and girls (1985). Nella carriera che il buon Brian ha intrapreso per conto proprio, il successo commerciale però non è stato sempre seguito dall’acclamazione critica: l’ispirazione talvolta ha latitato (ecco perché tanti dischi di cover), e in più, in certi passaggi, un pizzico d’autoindulgenza ha finito col soffocare le buone intenzioni.

Mancava dal 2002 con un album di inediti Ferry, dai tempi cioè di Frantic, altra ragione per cui era lecito dubitare della bontà della rentrée. E invece Olyimpia, sorpresa, fa centro pieno. Riannodati i legami con il sound laccato del succitato Boys and girls, il songwriter inglese è riuscito nell’impresa di rinvigorire le proprie ammiccanti carezze elettroniche, anche grazie ad uno stuolo di professionisti di altissimo livello (tra questi, Andy MacKay, Phil Manzanera, Brian Eno, David Gilmour, Marcus Miller, Nile Rodgers, Flea e Dave Stewart). Il lavoro di progettazione e rifinitura di studio è stato, ovviamente, certosino (producono Ferry stesso e Rhett Davies), ma le canzoni hanno la meglio sugli artifici, suonano affascinanti e fresche. Il dazio che si paga alla nostalgia (inevitabile) è ampiamente compensato dalla qualità della scrittura: la faccia di bronzo di Ferry è adorabile al punto tale da riuscire a venderti come nuova persino We can dance, che apre con un sample di True to life (uno dei capolavori di Avalon). Si diceva delle numerose collaborazioni: anche qui, Bryan riesce a non perdere la bussola. Fatta salva la stecca con gli Scissors Sisters (Hertache by number, rovinata dalla grandeur corale del ritornello), le altre partnership (ad esempio i Groove Armada per Shameless, Manzanera per Bf bass, Stewart per We can dance e Alphaville e Gilmour per Me oh my) funzionano a dovere. Non mancano le cover. E che cover: Song to the siren di Tim Buckley e No face, no name, no number dei Traffic, rilette modulando intelligentemente eleganza e malinconia. Malinconia che domina anche in chiusura di disco, nel notturno sinuoso di Reasons of ryhme e nell’elegia pianistica di Tender is the night.

Perfetto compendio del Ferry-style, Olympia è, in un certo senso, un disco umile, al di là della sfacciataggine ostentata. Perché non s’accontenta dell’effetto fine a se stesso e mette i suoi trucchi al servizio di partiture solide, ben strutturate. Raffinate, in un modo che forse solo il vecchio Brian, nella scena pop odierna, sa.

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie