Carl Barât – Carl Barât

Lo davamo tutti per disperso, Carl Bârat. Terminata rovinosamente l’avventura con quella gioiosa macchina da guerra brit pop-rock che erano i Libertines, in molti avevamo scommesso su di lui piuttosto che sull’instabile (per usare un garbato eufemismo) amico-nemico/compagno di band Peter Doherty. Ed invece è stato proprio quest’ultimo – in parte per per gli scandali, in parte per l’appeal da maudit, in parte per l’innegabile talento compositivo – a conquistare le copertine dei principali magazine (musicali e non) e a scalare le classifiche di vendita, confinando Barat ed il suo nuovo progetto, i Dirty Pretty Things (tutt’altro che trascendentali), in un angolino buio.

Ora, dopo due anni di silenzio, Carl rompe gli indugi e tenta la carta solista. E, sorpresa, ci regala un buon disco. Chi cercasse, nelle nove tracce di quest’album, quella miscela di Jam, Clash, Smiths, Beatles e Kinks che aveva contraddistinto le gesta dei “libertini”, rimarrà assai deluso. Il tono generale, infatti, è malinconicamente languido. Barât gioca a fare il crooner romantico, alla maniera di un Jarvis Cocker o di un Neil Hannon. A ben vedere, era inevitabile: il pogo è divertente, ma alla lunga stanca, fa venire il fiatone; e poi, il nostro l’adolescenza l’ha superata da un pezzo. Ecco dunque spiegata una traccia come The fall, brano-manifesto del CD, valzer melodrammatico in cui riecheggia Leonard Cohen. Anche il testo (una parabola sulla fine di un amore) denota, nella sua ricchezza espressiva, una sensibilità artistica nuova, all’insegna di una maggior sofisticatezza.

L’ambizione è evidente e percorre tutto il disco. È la sincera voglia di sperimentare, di confrontarsi con linguaggi nuovi, che spinge Barât a cesellare la partitura noir di The magus, il l’acustic-pop epico di She’s something, la jazzata Shadows fall (sempre nella vena di Cohen), la cullante My lover e Ode to a girl, arrangiata per piano ed archi, ma screziata di riverberi e rumorismi. Accanto a queste, le più frizzanti Je regrette, Je regrette (che maschera la spensieratezza dei Libertines dietro la grandeur orchestrale) e Run with the boys (gli Strokes conditi da fiati r’n’b), messe lì apposta per evitare che i fan della prima ora si addormentino.

Un Barat insomma più incline al compromesso tra tradizione brit-pop e cantautorato raffinato. Certo, non tutto è perfettamente a fuoco e qua e là traspare ancora un pizzico di ingenuità: tuttavia, l’ex Libertines sembra essere sulla strada giusta. The fall e Shadows fall, in particolare, sono i punti da cui partire per costruire una carriera solista che potrebbe riservarci delle sorprese. A meno che Barat non si rimangi tutto, getti a mare l’orchestra e recuperi i famosi tre-accordi-tre…

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