Interpol – Interpol

Solitamente, quando si arriva a bollare un disco con l’etichetta del “ritorno alle origini”, è semplicemente perché si cerca di riaccreditare una band presso un pubblico e una critica che magari s’è dimostrata delusa dalle recenti prove. Ma si tratta di una favoletta, confezionata ad arte dagli uffici stampa delle case discografiche: il “ritorno alle origini” è impossibile, perché – sorpresa – il tempo passa, le persone cambiano e altre amenità del genere.

Prendiamo gli Interpol: stando alle press-note (supportate, va detto, da qualche dichiarazione della band), questo quarto e omonimo full-lenght avrebbe dovuto riportare Paul Banks e soci alla grinta di un tempo, facendo ruotare all’indietro le lancette dell’orologio e realizzando così un miracoloso reboot dell’estetica della formazione newyorkese. Siamo spiacenti, ma Interpol non è niente di tutto questo. Non è il nuovo Turn on the bright lights (il debutto del 2002), né stilisticamente né qualitativamente.

L’Interpol-style si sustanzia appieno in Success, Summer well, Safe without, Try it on e soprattutto in Barricades, tutte chitarre taglienti (Daniel Kessler), bassi galoppanti (Carlos Denger, prossimo all’addio: sarà sostituito dall’ex Slint Dave Pajo) e drumming essenziali (Sam Fogarino); a svettare, il baritono glaciale di Banks. Il punto, però, è che in questi passaggi gli Interpol si limitano a sceneggiare i se stessi di qualche anno fa, con tutto ciò che ne consegue in termini di spontaineità ed efficacia. Nel corso della tracklist, capita anche che la sorveglianza di strutture e stereotipi consueti talvolta si allenti: ecco allora venir fuori il crescendo minaccioso di Lights, l’elegia obliqua e straniante Always Malaise (The man I am), la struggente All of the ways e la maestosa The undoing (con qualche verso in spagnolo). Si tratta di brani al più sospesi, con una forte vocazione atmosferica: meno immediati dei precedenti, rivelano l’intenzione di battere nuove strade, sabotando perciò, almeno in parte, l’idea del puro recupero del sound primigenio.

Dunque Interpol è diviso tra maniera e tensioni nuove: la prima produce una manciata di brani un po’ triti ma dal sicuro appeal, le seconde alcune intuizioni interessanti, spendibili con profitto per il futuro a patto che siano declinate in modo un pizzico più rigoroso (talvolta l’assenza di un reale baricentro è evidente, e conduce alla dispersività). Alla fine della fiera, pregi e difetti quasi si annullano: la resurrezione, quella vera, è rimandata.

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