Santo Barbaro – Mare morto

Il folk è una lingua umile, non fragile. E duttile, se la sai usare. La puoi adoperare per raccontare storie piccole, quotidiane, magari impregnate di gioia francescana, oppure come base per riflessioni filosofiche profonde, come pennello per affrescare scenari apocalittici o mondi di sogno pescati da angoli remoti di coscienza. Anche quando si mescola e si confonde con altre spezie, il folk mantiene sempre inalterato il proprio fascino ancestrale, quello che solo una lunga storia alle spalle riesce a darti, e la ricchezza che deriva dall’apertura all’“altro”. Ecco, la mescolanza è un po’ la chiave di volta di Mare morto. Il background di Santo Barbaro dice Nick Drake e De Andrè, ma non si rifugia ottusamente nelle proprie certezze, cerca il dialogo, il contatto, la contaminazione con le lingue musicali della (post)modernità – il post-rock (Massimo Volume) e l’indie-rock (Radiohead, CSI) -, senza per questo rinunciare a certe malinconie “latin” (Capossela). Quelle di Pieralberto Valli sono ballate spettrali, sottilmente inquiete, in cui gli intrecci acustici di chitarra e piano vanno a braccetto con rifiniture elettriche e tappeti elettronici pensati per incastrarsi alla perfezione, non semplicemente alternandosi ma alludendo continuamente l’uno all’altro, in un gioco di rimandi e suggestioni virtualmente infinito. Non ci sono confini, perché i confini sono fatti umani, prigioni auto-inflitte, dunque menzogne.

«Se i miei piedi potessero raccontare / Ti direbbero che le terre del mondo / Non rispettano i confini dell’uomo / E quando le lingue mutano e si fanno barbare, / Le terre conservano il medesimo sapore» recita la (silenziosa) introduzione al disco. È un incipit importante, al di là del suo valore poetico, una dichiarazione d’intenti, che si traduce, più in avanti, nell’attenzione (ossessione) di Valli per lo sguardo, il primo strumento con cui ci si rapporta col mondo, si cerca e si riconosce l’“altro”. Ma gli occhi, quando sono ciechi, producono l’inferno del conformismo: gli occhi vuoti sono quelli dei Nuovi schiavi, il cui girovagare per il mondo assomiglia ad un girotondo sterile e auto-distruttivo (Cecità), con sullo sfondo la certezza della guerra. Se gli occhi non li usi – non li usi davvero – l’altro non lo riconosci come te stesso: ed è lì che si comincia a credersi «portatori sani di un bene comune / in terra straniera» (Santo barbaro) e la fratellanza cede il posto al sangue.

«Se non sai chi sei / non puoi vedere aldilà / dell’idea che hai di te» (Occhi immensi): ma «partorire la verità» (Mare morto) è difficile. Allora forse l’unica fuga possibile, l’unico riparo dallo stereotipo, dal brutto, l’ultimo centimetro in cui ritrovare e mentenere se stessi, lo offrono una chitarra tenue e un piano un po’ brumoso, gli unici in grado di garantirci un sonno ricco di sogni, ché senza sogni (Guerre) il mondo è dei mostri…

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