Credevamo di averli seminati, di esserceli lasciati alle spalle, ma no, gli anni ’80 sono ancora qui, cristallizzati come nulla fosse nelle loro sofisticherie sintetiche, nelle loro malinconie futuriste, un po’ teneri, un po’ arroganti, un po’ kitsch. I Delphic di Manchester incarnano alla perfezione gli stereotipi dei bardi tecnologici di tre decenni fa, tra smarrimento esistenziale, romanticherie e beat tutti da ballare. Acolyte, il loro primo LP, ha però una vita all’infuori dello stereotipo: perché se è indubbio che Richard Boardman, Matt Cocksedge, e James Cook abbiamo passato le ore sui dischi di New Order ed similia, magari favoleggiando di essere sul palco dell’Hacienda, è altrettanto indubbio che la loro arte non si limiti ad uno scimmiottamento puerile.
Con la complicità del producer Ewan Pearson (e del batterista Dan Hadley) i tre hanno architettato dieci tracce che rispolverano synth e drum machine d’epoca senza rinunciare, però, a levigatezze e accorgimenti più recenti (Hot Chip, Bloc Party, Klaxons, Cut Copy), ammorbidendo l’impeto con trame ipnotiche, suadenti. Clarion call e Doubt costituiscono una falsa partenza, la prima con quel crescendo orchestrale un po’ ottuso, la seconda con una nenia saltellante che sa di mestiere lontano un miglio. This momentary alza il tiro, e fa centro: tintinnare oscuro di basso, riverberi sintetici e accenni house che si mescolano a pulsazioni tribali, confondono le carte, mostrando una bella fantasia “combinatoria”. A conferma di un’ambizione non comune c’è la title-track (quasi 9 minuti), che alterna paesaggi statici a dancehall futuristi, che, popolati di riverberi e vocals eteree, sono fatti in fondo della stessa materia (di sogno) dei primi. Counterpoint, tutta chitarre e synth frenetici, sfodera un crescendo à la U2 che si smorza nell’ambient di Ephemera per poi approdare alla soul-ballad androide di Remain. Altro bel colpo è Red lights, un funky subdolamente incorporeo, etereo, mentre Submission azzecca la melodia e ci mette la giusta dose di struggimento; persino Halcyon ha qualche motivo di interesse, perché se il motivo è superficiale, il telaio (con quei beat così ben delineati) assolutamente no.
E insomma, i Delphic non inventano nulla di nuovo, però fanno tutto bene e riescono a definire, tra uno stereotipo e l’altro, uno spazio tutto loro. Piccolo magari, poco areato e non troppo luminoso, ma sempre meglio di tanti che, appena esordienti, si chiudono nel bugigattolo senza via d’uscita nel (finto) reducismo.