Negli ultimi mesi è tornato alla ribalta uno che, in effetti, non se n’era mai andato del tutto: David Gilmour. Un disco con i Pink Floyd che, malgrado i pronostici, è risultato tutto meno che disprezzabile (The endless river), l’annuncio di un tour mondiale, la release di un nuovo album solista, Rattle that lock, e ora due nuove date a Verona.
Ecco perché Gilmour non se n’è mai andato, in realtà, anche se un disco con i Floyd non lo faceva da 23 anni e l’ultimo LP solista, On an island, era del 2006. Il suo inconfondibile tocco alla Fender, le linee vocali morbide e malinconiche, l’eleganza decisamente brit degli arrangiamenti, hanno fatto scuola al punto tale da incidersi nel DNA del rock come lo conosciamo oggi.
Ripercorrere la carriera di uno come lui con dieci canzoni può sembrare una bestemmia. Tuttavia, se si prende la cosa per quello che è, ovvero un gioco, allora l’esercizio del compendio diventa un interessante viaggio nell’evoluzione di un suono che ormai riconosciamo già solo dall’ingresso del jack nell’ampli.
Time, da The dark side of the moon (1974) – David Gilmour, Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright
Alzi la mano chi non ricorda l’intro di orologi di Time, uno dei pezzi più celebri di The dark side of the moon. Il brano è uno dei pochi brani ad essere accreditato a tutti e quattro i membri della band. Il testo è di Roger Waters: racconta dello scorrere inesorabile del tempo nel solito modo paranoico del bassista. Gilmour ci mette del suo con un assolo epico e maestoso, che conduce lentamente alla reprise di un altro grande pezzo in scaletta, Breathe.
Wish you were here, da Wish you were here (1975) – Roger Waters, David Gilmour
La storia dei Pink Floyd è segnata da un “abbandono” prima e da un lutto poi. In entrambi i casi, protagonista è lui, Syd Barrett. Primo frontman dei Pink Floyd, fu scaricato a causa del suo pessimo stato di salute mentale, dovuto all’abuso di stupefacenti. Tanto per capire come era ridotto: Barrett durante le registrazioni di Wish you were here andò a trovare la band in studio ma all’inizio nessuno lo riconobbe…
Shine on you crazy diamond (parts 1-5), da Wish you were here (1975) – Roger Waters, David Gilmour, Nick Mason
Uno delle intro più celebri della storia del rock. La chitarra di Gilmour entra lenta, sospinta da tastiere cosmiche, cresce d’intensità e regala un momento di straziante epicità. Il “diamante pazzo” della canzone è ovviamente sempre Syd Barrett, a cui tutto l’album è dedicato. Shine on you crazy diamond è uno di quei pezzi-marchio di fabbrica ed ha marchiato a fuoco la storia del rock. Da brividi.
Dogs, da Animals (1977) – Roger Waters, David Gilmour
Si intitolava You’ve got to be crazy, questo brano: Waters ne modificò il testo in più punti e alla fine anche il titolo, che divenne Dogs. I temi del brano sono quelli tipici del bassista: solitudine, alienazione, pazzia strisciante. Gilmour imbastisce addosso al testo e all’interpretazione tesa del collega una piece prog rock a base di accordi funky di chitarra acustica, tastiere acide e lancinanti assoli elettrici.
Comfortably numb, da The wall (1979) – David Gilmour, Roger Waters
Uno dei pezzi più famosi dei Pink Floyd e uno dei capolavori chitarristici di David Gilmour, ancora oggi un suo cavallo di battaglia dal vivo. Comfortably numb è un brano plumbeo, perso nell’intontimento della droga e nella nostalgia di un’epifania ormai impossibile. I due assoli di Gilmour sono da manuale del rock, un condensato elettrico di malinconia e visionarietà.
Blue light, da About face (1984) – David Gilmour
About face è il secondo album solista di Gilmour (il primo, omonimo, è del 1978). Non proprio un gran disco, ma comunque interessante per comprendere l’evoluzione del musicista inglese. Da About face furono tratti due singoli: Blue light e love on the air. Il secondo fu scritto da Pete Townshend, ed è un pezzo dalla sensibilità tra Dire Straits e Bruce Springsteen (il periodo è quello, del resto). Più interessante forse Blue light, un funky percorso da fiati rhythm and blues, con un incisivo e tempestoso assolo finale.
Learning to fly, da A momentary lapse of reason (1987) – David Gilmour, Anthony Moore, Bob Ezrin, Jon Carin
Learning to fly fu il primo grande successo dei Pink Floyd post-Roger Waters. Il pezzo è essenzialmente frutto del lavoro di Gilmour, che sviluppò il brano a partire da un demo del chitarrista Jon Carin. Riff robotico, tastiere avvolgenti, refrain corale, break liquido: la ricetta perfetta per scalare le chart.
High hopes, da The division bell (1994) – David Gilmour, Polly Samson
Prima della pubblicazione di The endless river, The division bell era ufficialmente l’ultimo album dei Pink Floyd. Il disco chiude con questa canzone, High hopes, una ballad che il sample di una campana guida verso un crescendo melodrammatico. La musica è di Gilmour, il testo è firmato dalla compagna e collaboratrice Polly Samson. Ottimo l’arrangiamento, in cui si alternano orchestra, tastiere, chitarre flamenco ed elettriche, che si librano nell’arioso finale.
On an island, da On an island (2006) – David Gilmour, Polly Samson
On an island, sia il pezzo che il disco da cui prende il nome, è una rimpatriata. Ci sono un po’ di vecchi amici (David Crosby, Graham Nash e Richard Wright, proprio nella title track, e ancora: Chris Thomas, Phil Manzanera, Jools Holland e Robert Wyatt). Soprattutto, ci sono un sound e un’idea di canzone inconfondibili, una psichedelia morbida e infinitamente malinconica, cullata dal sustain lunare della Fender di Gilmour. Niente di epocale, ma una piacevole riscoperta.
Rattle that lock, da Rattle that lock (2015) – David Gilmour, Polly Samson, Michaël Boumendil
Rattle that lock, il nuovo disco di Gilmour, uscirà il 18 settembre. L’antipasto è la title-track, un trascinante pezzo funkeggiante dal gusto decisamente anni ’80. La voce è un po’ invecchiata, la classe e il sound rimangono intatti, anche grazie al lavoro di produzione dell’amico Phil Manzanera. Rivederlo dal vivo (il 14 settembre all’Arena di Verona ed il 15 al Teatro Le Mulina di Firenze) sarà un piacere.