Marcello Macchia – Italiano medio

Ne ha fatta di strada Marcello Macchia, in arte Maccio Capatonda, da quando nella piccola Chieti girava i suoi primi remake di Venerdi 13 e Ritorno al futuro. Lo ritroviamo nelle sale con Italiano medio, “for the first time on the cinematografò” dopo la collaborazione con la Gialappa’s Band, essere entrato a far parte dello Zoo di Radio 105, conclusa una serie tv prodotta da Mtv, ed essersi imposto come fenomeno del web.

Tratto non “da una storia finta”, ma da uno dei suoi finti trailer (a sua volta ispirato a Limitless di Neil Burger) il film scritto, diretto, montato e interpretato da Capatonda segue le vicende di Giulio Verme, un ambientalista ormai totalmente incapace di interagire con chiunque, la cui esistenza viene sconvolta dall’incontro con un vecchio compagno di scuola: tale Alfonzo gli procura la famosa pillola in grado di far utilizzare a un individuo il 2% del proprio cervello, al posto del 20%, trasformando Giulio nel perfetto “italiano medio”.

Parte in quinta il “film di Bruno Liegi Bastonliegi” e in men che non si dica ci siamo già lasciati alle spalle i titoli di testa, le immancabili scorregge di vanziniana memoria e la colonna sonora di Mariottide (altro personaggio creato dalla mente del comico). Poi però l’introduzione finisce e per il regista è tempo di innescare la trama. Quello che si trovano gli spettatori non è però una semplice sequela di gag e sketch slegati tra di loro, ma una storia semplice e senza pretese che gli permette di sfoderare tutto il suo deflagrante talento comico. Se c’è infatti un merito nell’opera prima di Macchia, oltre a quello lodevolissimo di essere divertente (che non è mai scontato), è proprio quello di non sottostare a nessuna regola nè morale nè tantomeno cinematografica: Italiano medio, con la sua comicità surreale e nonsense, la sua schiera di assurdi personaggi di contorno (Herbert Ballerina e Rupert Sciamenna su tutti) le sue citazioni (Fight club, Arancia meccanica) i suoi neologismi (“A me che cazzo me ne frega a me”) e i suoi inossidabili cavalli di battaglia (Pino Cammino, L’uomo che usciva la gente) rappresenta una vera e propria bomba nel banale e fintamente scorretto panorama del cinema comico italiano.

Da prendere con le molle invece i suoi tentativi di critica sociale: il film prende per i fondelli qualsiasi categoria di persona ritratta (anche gli spettatori, che inconsapevolmente ridono di loro stessi), ma quello che da una parte può sembrare come un cinema anarchico sempre fedele a se stesso in realtà si configura come la solita riproposizione di schemi e tormentoni televisivi che non riesce a percorrere strade diverse dai soliti Zalone, Siani, Biggio e Mandelli e che finisce per diventare proprio quello che tenta di criticare. Un cinema, quindi, in cui è forte la sensazione di trovarsi di fronte a una grossa puntata di Mario da 100 minuti, ma che d’altro canto certifica lo stato della commedia all’italiana forse come nessun altro film. E non c’è da stare tanto sereni.

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