«Quanto e cosa fingiamo di essere nel tentativo di attrarre una persona?». Se lo è chiesto (e lo ha poi confessato in un’intervista su Repubblica) David Fincher dopo aver letto Gone girl di Gillian Flynn. Un libro lungo, difficile da trasporre, strutturato su due binari paralleli (la versione di lui, la versione di lei). Eppure a Fincher le sfide sono sempre piaciute, soprattutto portare sullo schermo storie disturbate e disturbanti, com’era già accaduto in Millennium, Seven o Fight club (ma solo per citarne alcuni). Ed è così che è nato Gone girl – il film, L’amore bugiardo in Italia, titolo che già in parte rivela su cosa effettivamente si concentra la trama.
Pellicola e libro hanno qualche differenza, ma la sceneggiatura è della stessa Flynn che, dunque, non ha di certo snaturato il suo testo a vantaggio del prodotto cinematografico. Amy (Rosamund Pike) scompare il giorno del suo quinto anniversario di matrimonio. Tutti i sospetti cadono sul marito (interpretato da Ben Affleck), il quale viene immediatamente creduto colpevole dall’intera opinione pubblica. L’attenzione, quindi, si rivolge subito a quest’uomo e nella mente dello spettatore si accende il tarlo del sospetto: Nick Dunne, marito preoccupato, devoto e affettuoso, è ciò che sembra? A sua volta, Amy è davvero una vittima? Perché il ritratto che progressivamente esce di questa donna non è poi così limpido. Amy è “complicata”, ma dietro quel “complicata” c’è qualcosa di più: una personalità contorta, dai mille volti, indecifrabile, probabilmente la figura dominante in quel matrimonio. E si procede così, fra mille interrogativi, fino alla soluzione finale.
Due sono gli obiettivi di Fincher: raccontare il lato oscuro del matrimonio ed evidenziare il morboso interessamento dei media nel momento in cui una vicenda privata diventa improvvisamente pubblica. Fincher narra una storia americana, ma questi – lo sappiamo bene – sono aspetti che appartengono anche alla realtà italiana: dopo un rapimento o un fatto di cronaca efferato si è sempre alla ricerca di qualcuno da incolpare e si scava nell’intimità dei soggetti coinvolti al limite del lecito. Gone girl è stato definito un libro (e poi un film) misogino, definizione che il regista rifiuta, in quanto nel lungometraggio nessuno si salva, né uomini né donne, anche se c’è da ammettere che in tutta la cinematografia di Fincher le donne non sono mai soltanto vittime innocenti (ma da qui alla misoginia c’è una bella differenza).
In Gone girl c’è molto del cineasta e delle sue precedenti pellicole (tornando alla questione del privato che diventa pubblico, pensiamo solo a The social network): per cui da vedere, perché la qualità c’è, nella storia e nei dialoghi. Ancora una volta, Fincher è sempre Fincher.