Pink Floyd – The endless river

Non capita molto spesso di recensire un disco di un gruppo come i Pink Floyd. Al di là della retorica stucchevole del “band così non ne nascono più”, è indubbio che, nel caso della formazione britannica, il peso specifico sia di quelli che fanno tremare i polsi. Pensate: parliamo degli autori di Interstellar overdrive, Shine on you crazy diamond, Wish you were here, Time, Another brick in the wall e via discorrendo. Fino a qualche mese fa, sembrava che dovesse essere The division bell (1994) l’ultimo loro album. Invece, il desiderio irresistibile di tornare in pista ha spinto David Gilmour e Nick Mason a ripescare un po’ di materiale inedito, ridargli una spolverata, una rammendata e spedirlo nei negozi.

L’idea era rendere omaggio a Richard Wright, il tastierista della band, scomparso nel 2008, e insieme chiudere definitivamente una storia gloriosa. Per questo, Gilmour e Mason, assistiti dai produttori Phil Manzanera (il sottovalutatissimo chitarrista dei Roxy Music) e Youth, hanno messo mano a venti ore di registrazioni risalenti alle session di The division bell. E se già pensate che sia anacronistico, nel 2014, avere un nuovo disco dei Pink Floyd nel lettore CD (pardon, in streaming su Spotify), beh considerate che nel nuovo flusso di note licenziato da Gilmour e Mason trovate incastonati anche registrazioni originali dell’organo di Wright del 1969 alla Royal Albert Hall e alcuni frammenti di conversazioni tra i vari componenti della band.

«Riascoltando quelle vecchie registrazioni mi ha riportato alla mente quanto fosse speciale il suo modo di suonare», ha spiegato Mason in un’intervista. E in effetti, appena parte, The endless river ci mette poco a farti sentire a casa. Le atmosfere sono quelle sognanti che tanto piacciono a Gilmour: il dialogo tra tastiere e chitarre si svolge lento, carico di malinconia cosmica. Things left unsaid, le cose non dette, si intitola la prima traccia, e non è un caso: tutto l’album, con l’eccezione di Louder than words (che pure nel titolo sembra nutrire sfiducia nei confronti della parola), è puramente strumentale. L’attacco di It’s what we do è da brividi, e riporta indietro di quarant’anni: la chitarra di Gilmour, con i suoi bending cristallini, carichi di pathos, è rimasta la stessa.   

Certo, sin dalle prime battute è chiara anche un’altra cosa: The endless river non aggiunge nulla al repertorio della band. Tuttavia, neppure possiede la vacuità gratuita dei dischi fatti per battere cassa. Sum, con il suo pattern ritmico tribale, le fluttuazioni minimaliste dell’organo e i fraseggi epici della chitarra, azzecca il mood marziale e claustrofobico. In Night light l’atmosfera si fa ancora più impalpabile, metafisica, mentre la commovente Anisina e On noodle street confermano come Gilmour & co. siano ormai gli ultimi maestri di un pop sofisticato e levigato. Buone anche Nervana e Allons-y, più grintose, e Louder than words, in cui Gilmour sembra davvero voler chiudere il cerchio, chiamando in causa anche il Grande Assente di The endless river, Roger Waters («We bitch and we fight / But this thing that we do / It’s louder than words / The sum of our parts / The beat of our hearts / It’s louder than words»).

Per chi ama le bizzarrie, in Talkin’ Hawkin’ compare la voce di Stephen Hawking, per una reprise di Keep talking, da The division bell. A questo punto, malgrado il brano sia tutt’altro che disprezzabile, è decisamente un di più. The endless river è la summa dell’arte di una band inconfondibile, e questo è al tempo stesso il suo miglior pregio e il suo peggior difetto. Difficile non imputare all’album una non-necessarietà sotto il profilo artistico; altrettanto difficile, però, non provare un brivido per tutta la durata dell’ascolto e un pizzico di commozione nel sapere che ora è davvero finita. 

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