Mario Martone – Il giovane favoloso

Gianni Amelio diceva che per giudicare correttamente un film sarebbe importante considerare anche il suo grado di difficoltà realizzativa. Da questo punto di vista Il giovane favoloso, terza opera italiana in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, presentava non poche insidie: un film in costume ambientato nell’800, con svariate location sparse per l’Italia e con protagonista una delle più enigmatiche e meno “cinematografiche” figure del nostro panorama culturale, Giacomo Leopardi.

Tre variabili che di solito rappresentano per la maggior parte degli addetti ai lavori ostacoli insormontabili. Perchè il film di Mario Martone, lo diciamo subito, non è perfetto, ma il miracolo che il regista napolatano ha saputo compiere è stato proprio nell’aver ridotto al minimo i rischi che il film si portava dietro, riuscendo alla fine a confezionare un’opera matura, coraggiosa e, almeno su questo versante, inattaccabile. Sulla scia di Noi credevamo, ambientato anch’esso nell’800, Martone ci consegna in questo modo un biopic rigoroso, evitando, attraverso una messa in scena straordinaria, il didascalismo insito nella sua natura.

Il film si divide in tre parti che corrispondono a tre diversi momenti della vita del poeta e di conseguenza a tre diversi “antagonisti” che di volta in volta intralciano il suo cammino. Nella prima parte, ambientata a Recanati, il giovane Leopardi cresce insieme ai suoi due fratelli sotto l’egida del padre che li costringe ad una vita dedita solo allo studio. Ma “sedendo e mirando interminati spazi”, Giacomo decide di fuggire dalla terra natale e di trasferirsi a Firenze. Qui Leopardi trova sia la tanto sperata libertà creativa sia l’opposizione dei letterati del tempo che lo etichettano come eccessivamente pessimista. Deluso dall’ambiente fiorentino si trasferisce infine a Napoli insieme all’amico Ranieri, dove però viene progressivamente schiacciato dai continui dolori fisici.

Una struttura in tre atti forse troppo rigida e scolastica quella imposta dal regista, che rende il film eccessivamente frammentato, come se ogni scena fosse un compartimento a sè stante, privo cioè di un respiro narrativo più ampio. Ma poco importa di fronte alla potenza visiva di alcune scene che supportano, senza schiacciare, le parole del poeta. Merito anche di un bravissimo Elio Germano, che con grande impegno riesce ad uscire indenne dai panni difficili del protagonista e a donare nuova forza alle tante poesie di Leopardi. Un’opera di enorme spessore quindi, imperfetta e ambiziosa, colta e inconsueta. Una lezione per noi e per il cinema italiano tout court. Ce ne fossero di film così.

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