Leonard Cohen – Popular problems

Leonard Cohen non è un cantante particolarmente dotato, in senso tecnico almeno. E però, è dai tempi del suo esordio, Songs of… (quello con Suzanne, per intenderci), che il suo timbro basso, quasi un soffio, non smette di sedurre, di ipnotizzare. Complice anche la forza delle parole che canta, ovviamente, le quali, con il passare del tempo, hanno acquistato qualcosa in humor. Popular problems, la nuova fatica del songwriter e poeta canadese, punta decisamente su questi due ingredienti, ovvero la seduzione di una voce che riflette con distacco e auto-ironia i suoi ottant’anni e una manciata di versi affilati come lame, ma la musica non è da sottovalutare.

I brani, scritti e prodotti assieme a Patrick Leonard (che ha lavorato con Madonna ed Elton John, tra gli altri), si collocano a metà strada tra il Cohen più sintetico ed esile dei lavori dei primi anni 2000 (Ten new songs, Dear Heather) e quello più acustico e “suonato” di Old ideas. Anche in Popular problems le idee non sono magari nuovissime (blues, country, gospel), ma funzionano bene. Le partiture sono scheletriche, ossute: un basso che pulsa profondo, l’organo, qualche nota di piano, gli archi, le voci femminili. Non inconsistenti, però: nel lento (appunto) blues sensuale di Slow in primo piano c’è la voce, ma il beat metronomico e i ricami millimetrici di tastiere ed Hammond creano un’ossatura resistente, persino accattivante grazie all’ingresso dei fiati.

In Popular problems Cohen parla tanto (di guerra, pace, religione, amore) e la musica viene distillata con il contagocce, ma l’insieme tiene bene. Anche il primo singolo ufficiale, Almost like the blues, che si dipana a partire da un’elegante linea melodica di piano, poggiata sui rintocchi di un basso e qualche tocco lieve di synth, se ad un primo ascolto può sembrare un semplice cliché, via via cresce. E poi, quando uno canta “There’s torture and there’s killing / And all my bad reviews” con quel vocione roco, come può suonare scontato?

No, si tratta semplicemente di accettare il fatto che Cohen suona solo come Cohen, ormai, anche quando verrebbe di tirare in ballo Tom Waits (l’attacco di Did I ever love you) o Neil Young (il country-rock virato r’n’b di My oh my). La magia è sempre lì, nonostante gli anni: quando parte, Samson in New Orleans per un attimo viene da pensare ad Halleluja. Popular problems non è un disco perfetto, però: qua e là, Cohen e Leonard esagerano un po’, per esempio in Nevermind, che sfodera un’oscura pulsazione da club e vocalizzi arabeggianti. Meglio cose come il lento misticheggiante Born in chains o la serenata folk You got me singing (“You got me singing even though the world is gone / You got me thinking I’d like to carry on”), che sembra provenire direttamente dagli anni ’60.

Su tutto troneggia questa voce, pacificata e inquieta, sensuale e intellettuale, oscura eppure capace anche di repentine e inafferrabili schiarite. Nelle pieghe di quella voce c’è tutto Cohen e il segreto di una scrittura che, dopo 50 anni, continua ad affascinare.

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