U2 – Songs of innocence

Le reazioni a Songs of innocence, il nuovo disco degli U2, hanno cause diverse tra loro, paradossalmente quasi nessuna strettamente musicale. Per cominciare, la musica dei quattro irlandesi appartiene a quella categoria del “si ama o si odia”: già ai tempi di un capolavoro come The Joshua Tree (1987) c’era chi non li poteva soffrire, a dimostrazione di come il messianesimo rock di Bono & co. sia sempre stato fortemente divisivo.

Il tira e molla di questi mesi sul nuovo album (esce entro l’anno – non esce entro l’anno – sì, esce entro l’anno), dettato dal flop del singolo Invisible e dalla paura di Bono essere diventati “irrilevanti”, non ha ben disposto verso il ritorno della band e ha fatto pensare ad un gruppo in pieno stato confusionale. Del resto, non è che i precedenti due album, How to dismantle ad atomic bomb (2004, dignitoso) e No line on the horizon (2011, ridicolo), avessero fatto venir voglia di risentire Bono, The Edge, Mullen e Clayton a breve.

Poi ci si è messa pura l’idea della nuova partnership con Apple, che, con una mossa a sorpresa simile a quella del tizio che ti infila il volantino pubblicitario sotto il tergicristallo mentre sei fermo al semaforo, ha reso disponibile il disco su 500 milioni di account iTunes. Un’idea di marketing che in un altro momento (o con un’altra band) sarebbe risultata vincente, ma che nel caso degli U2 (di questi U2) è apparsa, nella migliore delle ipotesi, come un tentativo giovanilistico di ricercare un nuovo brivido hi-tech (non ne sono mancati nella carriera della band). Nella peggiore, un modo come un altro per non scomparire dalle classifiche.

Tutti questi ingredienti, combinati tra loro, hanno prodotto una miscela esplosiva: Songs of innocence era già sul banco degli imputati delle principali webzine e delle tweetstar a neanche un’ora dal primo download. Alla fine, dunque, per assurdo, non sono stati il tempo o le nuove mode a rendere “irrilevante” la musica degli U2, ma il loro stesso comportamento. Di Songs of innocence se ne parla quasi ovunque male, ed è un peccato, perché non è un disco così malvagio, anzi. Certo, la freschezza dei bei tempi è solo un ricordo, ma le undici tracce (prodotte molto bene da Danger MousePaul Epworth, Ryan Tedder e Flood) stratificano con intelligenza chitarre elettriche ed elettronica, alternando ballate a passaggi più tirati (ma non tiratissimi).

Di trucchi ce ne sono a bizzeffe, ovviamente, a cominciare dall’omaggio a Joey Ramone e al racconto della folgorazione per il punk di The miracle (of Joey Ramone), che scodella impunemente un drumming marziale, i coretti e la chitarra rocciosa di The Edge, come fossero chissà che novità. In California (there is no end to love) la citazione è dei Beach Boys, e il ritornello, trainato da un basso new wave e da synth sporchi, acchiappa come poche cose degli ultimi U2. This is where you can reach me now paga invece dazio al grande Joe Strummer, con una chitarra wah wah in levare.

Tra i momenti più grintosi bene anche Iris (hold me close), dedicata alla madre del frontman, e la ledzeppeliniana Cedarwood road, mentre sul versante ballata spiccano Every breaking wave, Song for someone (che ricorda che cantante sia ancora Bono) e, soprattutto, The troubles, che in chiusura regala la zampata con una specie di sinuoso trip-hop orchestrale, cantato in duetto con Lykke Li. È il brano più sperimentale di un disco che, tuttavia, anche altrove non manca di cercare qualche trovata un po’ meno ordinaria (la pulsazione sintetica di Sleep like a baby tonight); ed è anche il pezzo che conferma che se gli U2 la piantassero con la fissa della classifica o del rimanere giovani in eterno, potrebbero davvero far mangiare la polvere a decine di band in circolazione.

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie