Ryan Adams – Ryan Adams

Per non smentire la sua leggendaria prolificità, Ryan Adams, poco prima di pubblicare questo suo quattordicesimo e omonimo album, ha diffuso (via web e tramite il suo store) 1984, un disco che omaggia la scena hardcore americana di fine anni ’70 – anni ’80. E un particolare non trascurabile: Adams è quello che ha scritto La Cienega just smiled e My sweet Carolina, ma è anche uno che la fissa del punk – inteso non solo in senso letterale, ma anche come sinonimo di rock sanguigno, genuino – se la porta appresso sempre. E ad ascoltare questo Ryan Adams lo si capisce.

Rispetto al precedente Ashes & fire (2011), il nuovo disco del songwriter americano sfodera dei suoi più elettrici, esuberanti, a tratti persino epici. L’approccio è ruvido e romantico, come si conviene ad un rocker americano – perché i padri di Adams sono i grandi songwriter made in USA. Stay with me, ad esempio, ruba qualcosina a Tom Petty e si concede un bell’assolo in twang, incisivo e con dei glissandi ariosi. I just might, invece, ammicca (sempre con personalità) a Bruce Springsteen, optando non per la grandeur di Born to run ma per un arrangiamento minimo e tormentato. Wrecking ball, l’altro omaggio al Boss, è invece teneramente acustica – ed è l’unica, giacché persino Let go, che chiude il disco con delicati intarsi di piano e chitarra ed una batteria appena spazzolata, sfodera un bel wah wah elettrico sul finale.

L’impressione, rispetto a Ashes & fire, è che stavolta Adams abbia voluto concentrarsi più sul suono che sulla narrazione. Non è un caso che in almeno tre canzoni, nel testo, compaia un «nothing to say» in mezzo alla solita dose di oscurità e amori tormentati, a dimostrazione di come stavolta a parlare siano le chitarre robuste della dylaniana Trouble o di Kim, e le ritmiche martellanti di Feels like fire. Sebbene, però, Ryan Adams abbia una maggiore visceralità rispetto al passato recente del songwriter, e faccia ampio uso di cliché consolidati del roots-rock, non è un disco monocorde o stantio. Al contrario, le melodie posseggono una loro discreta freschezza (Gimme something good) e il mood generale, un po’ spettrale e ruvido, unito alla solita sagacia negli arrangiamenti (Kim, Feels like fire, I just might, Let go, Shadows), fanno di quest’album una conferma del talento limpido di Adams, a questo punto un classico della nostra epoca.

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