Oliver Stone – Platoon

Ispirato alle reali esperienze vissute da Oliver Stone, volontario in Vietnam tra il ’67 e il ’68, Platoon è, a ragione, considerato uno dei migliori film di guerra sfornati dall’industria cinematografica del XX secolo. In verità, all’inizio Hollywood non era molto interessato alla storia, perché già affrontata in cult come Apocalypse now di Coppola o Il cacciatore di Cimino. Tuttavia, si sa, l’intreccio del fittizio con il materiale autobiografico possiede una solidità e un fascino particolari, per cui non fu difficile al vincitore dell’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale di Fuga a mezzanotte ottenere l’attenzione e i finanziamenti necessari al suo progetto.

D’altro canto, Stone si era formato con insegnanti come Martin Scorsese, aveva firmato nell’83 la sceneggiatura di “robetta” come Scarface di De Palma, insomma, la sua ascesa nell’Olimpo del cinema sarebbe stata prima o poi inevitabile. Così, con un trio di attori superlativi (SheenCharlie –, Berenger e Dafoe), Stone girò il suo capolavoro, che parte con il giovane Chris Taylor che si arruola volontario in Vietnam, dopo aver abbandonato il college. Un entusiasmo iniziale che sarà ben presto sostituito dall’orrore per la guerra e per l’uomo abbruttito, degradato al pari delle bestie, risucchiato in una spirale di distruzione e morte. Ci sono due poli contrapposti che si fronteggiano: da una parte il cinico Bob Barnes, dall’altra il più umano, seppur disilluso, sergente Elias Grodin. Ed è proprio quest’ultimo il protagonista di una delle scene più memorabili nella storia del cinema (immortalata anche nella locandina dell’opera), quando, inseguito dai soldati nemici, cade sotto i loro colpi, con i compagni che dagli elicotteri assistono impotenti al macabro episodio.

Platoon ebbe un tale successo di pubblico e critica da costringere addirittura Stanley Kubrick a posticipare l’uscita del suo Full metal jacket, che, incentrato sullo stesso argomento, rischiava di passare sotto silenzio. La pellicola mise in scena una nuova rappresentazione di quell’Orrore confessato da Kurtz in Apocalypse now, improntato sull’imperialismo occidentale, sul sacrificio umano in nome della patria e, in questo caso, su quel gran sogno americano che trova il suo epilogo in una giungla, distrutto da nemici il più delle volte invisibili («L’America le ha suonate a tanta di quella gente che secondo me è arrivato il momento che ce le suonino» dice senza mezzi termini il sergente Elias).

Com’è evidenziato anche nel film, nei conflitti spesso si combatte una battaglia contro se stessi, o, meglio, si combatte «per il possesso della propria anima»: questo anche se, alla fine, la guerra resta pur sempre un inferno, ossia «l’impossibilità della ragione».

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