Cloud Nothings – Here and nowhere else

Da un lato c’è l’immediatezza. Dylan Baldi ha affermato di aver scritto le 8 (solo? Sì, solo) canzoni di Here and nowhere else mentre era in tour, impegnato in 18 mesi di concerti seguiti alla pubblicazione del secondo album dei Cloud Nothings, Attack on memory. «Mi sentivo a posto con tutto e perciò ho scritto delle cose che mi rendevano felice», ha rivelato il musicista. «Non ero arrabbiato, perciò l’approccio è stato più positivo e meno “fanculo a tutto”. Mi sono semplicemente seduto e ho suonato fino a trovare qualcosa che mi piacesse, perché finalmente potevo permettermelo».

Dunque penseresti che il disco, registrato in una settimana con l’aiuto del produttore John Congleton ai Water Music studio di Hoboken, New Jersey, sia di quelle sveltine in stile punk/garage/noise-rock che vanno di moda nel circo del revival anni ’90. E invece no – perlomeno non semplicemente. È lo stesso Baldi a dichiararlo, e ad ascoltare le tracce, non si fatica a dargli ragione: Here and nowhere else è un disco subdolo, ogni volta che lo ascolti rivela parti di sé che non credevi.

L’immediatezza, dunque, è relativa. Now hear in, l’opener, macina accordi probabilmente abusati, così come il fuzz rimanda alla stagione migliore dell’indie rock, quella dei primi Novanta, ma dietro il tono enfatico, barricadero, si nasconde qualcosa di più sofisticato. Non è, insomma, il solito anthem punk, anche grazie ad un testo “allucinato”, pieno di dubbi anche radicali («I go outside and see all these things that should be real» è l’incipit). Tra l’altro, così come la facilità dei pezzi è discutibile, lo è altrettanto (o quantomeno è da reinterpretare) l’idea secondo cui Here and nowhere else sia scritto a partire dalle «cose che mi rendevano felice». Evidentemente, questo non si traduce in un disco positivo, dato che si parla di malattia mentale, instabilità, relazioni che finiscono e via di seguito.

Basterebbe la sola Psychic trauma a confermarlo, con la foga del cantato e la parossistica impennata finale (anche se l’intro fa invece pensare ai Pavement). Ci dà dentro anche Giving into seeing, con un impatto fisico devastante grazie alle randellate del basso, la chitarra nevrotica e quello «swallow» urlato con un filo di voce. Pattern walks, però, conferma come la fisicità del sound dei Cloud Nothings si accompagni anche ad una suggestione decisamente metafisica, e come le due siano indissolubilmente legate: a metà circa il pezzo si sfalda, precipita in un rumorismo “ambientale” e da lì si ricompone. Come a dire che, per un attimo, abbiamo visto cosa c’è dietro.

I’m not part of me è la chiusura: «It starts right now, there’s a way I was before» è l’incipit, ed è evidente come si tratti del pezzo che riassume tutto il disco ed anche, in effetti, di una presa di coscienza. Baldi c’è insomma, non così lieto e spensierato come si penserebbe ma neppure perso nei suoi fantasmi. E la sua musica non è mai stata così elettrizzante.

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