Angel Olsen – Burn your fire for no witness

Angel Olsen è una di quelle che ha gli ascolti giusti e viene dal giro giusto. Gli ascolti, a giudicare dalla paletta sonora di questo suo secondo LP, Burn your fire for no witness, sono Leonard Cohen, Patti Smith, Mazzy Star, Loretta Lynn, i Velvet Underground perfino; il giro è quello di Bonnie “Prince” Billy e Marissa Nadler, due dei maggiori songwriter degli ultimi 20 anni. Da questo mix poteva nascere poco di brutto, e in effetti, come il predecessore, Burn your fire for no witness ha una classe e una profondità poetiche notevoli.

(Angel Olsen)

Il disco è stato registrato in una chiesa sconsacrata, la Echo Mountain, ad Asheville, North Carolina. Con la Olsen (alla voce e alla chitarra), due nuovi compagni d’avventura: Stewart Bronaugh al basso e Josh Jaeger alla batteria. Soprattutto, però, ad occuparsi della produzione c’era John Congleton, già al lavoro con Bill Callahan e St. Vincent (tanto per rimanere in tema di “giusti”) Ne è venuto fuori un mix di country e ruvidezze rock che ha nel fascino retrò e nella spazialità del sound, assicurata da un uso sapiente del riverbero, i suoi tratti precipui.

Unfucktheworld introduce subito al clima dell’album, con una chitarra strimpellata e una melodia dalle inflessioni spettrali – e lo spettro è quello della solitudine («I have to save my life / I need some peace of mind»). Forgiven/Forgotten, invece, fa leva su basso e batteria per un numero stile grunge-pop: il sound è aspro, e le ferite sono quelle di un amore passato che, forse, proprio passato non è («There’s one thing I fear / Is knowing you’re around / So close but not near»). Malgrado un numero cupo come White fire, nello stile di Cohen, Burn your fire for no witness non è immune all’ironia: Hi-five, ad esempio, prende in giro gli stereotipi del country mostrando un’insospettabile leggerezza («Are you lonely too? / Hi-five, so am I»).

 

Il secondo album della Olsen è dunque più ricco di quanto non sembri in superficie. Se uno si ferma alle citazioni (il Coen di White fire, appunto, o la Smith in versione country rock di High and wild) l’impressione è quella di un lavoro troppo appiattito sugli stereotipi dei classici, addirittura bidimensionale. Non è così, perché la Olsen suona alla fine come se stessa, ovviamente, e il dolore che aleggia sulle tracce (e che in Stars vorrebbe liberarsi con un urlo) è riscattato da ventate di ottimismo. Del resto, qualche volta la finestra bisognerà anche aprirla: «cosa c’è di sbagliato nella luce?» si chiede la Olsen nella conclusiva Windows, con il plettro che accarezza gentilmente le corde della chitarra.

Alla fine, insomma, le nuvole che offuscano la vista nella dolente e bellissima Enemy («sometimes our enemies / are closer than we think») svaniscono. Ne guadagna il cuore e soprattutto la musica della Olsen, intensa e personale, avviata definitivamente sulla strada della maturità artistica.

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