The Notwist – Close to the glass

I Notwist sono in giro da 25 anni. Tanto, ma non troppo. E il motivo è semplice: la formazione tedesca vuole bene al proprio talento, lo coltiva con parsimonia e scarsa autoindulgenza. Dalla nascita (1989) all’esordio (1991, con l’LP omonimo) a quest’ultimo capitolo, Close to the glass, si contano complessivamente 7 album, altrettanti EP, un live ed una colonna sonora. Una produzione centellinata, insomma, ma ovviamente la quantità da sola non basta a spiegare la longevità della band di Markus e Michael Acher. E allora ecco il secondo tassello del puzzle: la varietà.

(i Notwist) 

Dagli esordi metal al raffinato mix di chitarre indie e sintetizzatori di Neon golden (2002), i quattro tedeschi hanno cambiato moltissimo. A fare da minimo comun denominatore tra i vari passaggi, una voglia di sperimentare che non è uno sterile gioco a “sfuggire” a tutti i costi le etichette, ma un più complesso tentativo di saggiare i confini dei vari generi e soprattutto la plasticità del sound.

Il suono, ecco la parola chiave. Close to the glass, il primo LP dei tedeschi per la Sub Pop (in un’epoca di crisi del rock chitarristico, è davvero la chiusura di un cerchio), è ossessionato dalla manipolazione sonora, al punto tale da rischiare di perdere di vista la coerenza. L’album oscilla da un’elettronica minimalista al pop rock chitarristico a momenti più cantautorali ad altri “post”. La forma canzone, insomma, qui sta stretta.

L’incipit, con il balbettio ipnotico di Signals, che fa pensare ad un dialogo tra macchine in corso, ad un sovrapporsi di “voci” androidi con una umana, e gli incastri ritmici della radioheaddiana Close to the glass (davvero cupa), sono bilanciati dalla brillante Kong, che potrebbe essere un parto degli ultimi Strokes. Ovviamente, anche qui non manca un massiccio supporto di sintetizzatori analogici, e il finale accentua gli aromi kraut e l’attitudine da jam session alla base del pezzo, tanto per far mettere in chiaro che il contrasto tra i vari ingredienti, in Close to the glass, non è così stridente, ma è al centro di una dialettica.

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7 hour drive è un altro bell’esempio di sintesi tra tastiere e chitarre, sotto le insegne di uno shoegaze degno dei My Bloody Valentine. Anche nei momenti più raccolti (le acustiche Casino e Steppin’ in), Close to the glass non somiglia davvero a nulla che la band abbia fatto in precedenza. “Avvicinarsi al vetro” per scrutare meglio significa imbastire spettrali nenie decostruite (Run run run), balletti paranoici (Into another tune), manipolare l’elettricità e le strutture, dilatare tutto fino agli otto minuti pulsanti e malinconici di Lineri e poi dissolvere nel morbido abbraccio di They follow me.

Alla fine rimane un mistero, perché Close to the glass, anziché chiarire finisce col confondere. È un disco aperto, a tratti contraddittorio anche nei testi, ambiguo. Ma, alla fine, chissene: qualche volta è più importante fare le domande giuste piuttosto che incaponirsi a cercare facili risposte, e in questo Close to the glass è notevole.

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