Ebbene si, Lone survivor è il solito film ultra retorico e filoamericano con il quale almeno una volta l’anno dobbiamo fare i conti. Qui non si discute l’intento, peraltro incontestabile e in qualche modo onesto e sincero, del regista Peter Berg di rendere omaggio al coraggio di alcuni uomini. Bisogna però ammettere che, da un film ambientato in Afghanistan in piena guerra, è lecito aspettarsi qualcosa di più di una semplice regia che risalta la spettacolarità delle scene d’azione e una sceneggiatura che non fa altro che ripeterci quanto i quattro soldati impegnati nell’operazione Redwing siano espressione trionfante dei valori americani.
Tratto dal libro Lone survivor: the eyewitness account of operation redwing and the lost heroes of Seal Team 10, scritto in forma autobiografica da Marcus Luttrell (interpretato da Mark Wahlberg, anche produttore), il film racconta la vicenda di quattro Navy Seal impegnati in una missione segreta tra le colline rocciose dell’Afghanistan. Dopo essere stati scoperti da un gruppetto di contadini e impossibilitati a comunicare con il comando a causa della radio rotta, i soldati verranno braccati dai talebani e costretti ad una fuga praticamente senza speranza.
Lone survivor è strutturato in tre parti. La prima parte del film si concentra sul cameratismo dei soldati e sui concetti di fratellanza e di sacrificio con puntuale messa in mostra dei più abusati cliché di certo cinema militaristico. Nella seconda parte la noia lascia spazio alla battaglia e a più di 30 minuti ininterrotti di pallottole, bombe e ossi spezzati al limite dello splatter. La terza parte cambia nuovamente registro consegnandoci uno scontato messaggio pacifista di speranza in un mondo migliore. Ma è con i titoli di coda che il film rivela tutta la sua retorica e il suo buonismo patriottico: una carrellata di foto dei veri caduti in battaglia con immancabile musichetta strappalacrime (una cover di Heroes di David Bowie) che rischia perfino di risultare offensiva per il suo strumentalizzare un fatto veramente accaduto.
E poi i soliti personaggi stereotipati (tutti mariti o padri di famiglia esemplari) e le stesse distinzioni nette tra buoni e cattivi; scene troppo verbose e ridondanti (come la morte del capo squadra o l’abbraccio finale con il bambino) e una struttura narrativa alla Carlito’s way totalmente inutile e fine a se stessa. Un film senza capo né coda che, come i precedenti Hancock o Battleship, non si capisce da che parte voglia andare e che, malgrado un ottimo uso del sonoro e una regia di “mestiere”, non si eleva mai all’estetica di prodotti come Green zone o The hurt locker ma finisce invece con l’essere paragonato più a film come Act of valor, storico polpettone del 2012 dall’intento unicamente propagandistico.