Sun Kil Moon – Benji

Come può un disco che parla di morte, un disco di Mark Kozelek che parla di morte, suonare anche vivo, vitale, persino brillante? Sì, proprio Mark Kozelek, l’uomo dietro ai lamenti crepuscolari dei Red House Painters, per dirla con Scaruffi uno dei grandi poeti del rock. Benji è il suo nuovo album a nome Sun Kil Moon (appunto), e sebbene il carico di malinconia sia lo stesso di 25 anni fa, stavolta nell’aria c’è qualcosa che va oltre il solito languore. 

Kozelek è sempre stato bravo a tracciare storie personali trasformandole in parabole universali, ma qui il concetto di “personale” è ancora più stretto: le storie, un po’ autobiografiche un po’ “aggiustate” dal suo talento di scrittore, toccano la sua famiglia, i suoi affetti più profondi. Come in Carissa, brano dedicato ad una sua cugina: «Carissa, when I first saw you, you were a lovely child / And the last time I saw you, you were 15 and pregnant and running wild». Carissa poi muore per l’esplosione di una bomboletta spray, esattamente come lo zio di Kozelek (il nonno di Carissa: se ne parla in Truck driver).

In questo circolo, a base di vita, guai, spensieratezza e morte, è inscritto tutto Benji. In pratica in ogni canzone muore qualcuno, ma a Kozelek di quel qualcuno preme sottolineare che è stato, prima di tutto, vivo. Il disco ovviamente è sbilanciato verso il passato (Benji è il titolo di un film del ’74 con protagonista un cane). I love my dad è un mid-tempo incentrato sulle lezioni di vita paterne, Micheline è un tenero folk che racconta della morte della nonna.

Su toni più tetri si muove Jim Wise, incentrata su un amico del padre che uccise la moglie, tentò il suicidio ed ora se ne sta in galera. Il brano si svolge su una linea di chitarra ipnotica, su cui si snoda un flow hip hop. Lo stesso che anima la più vivace Ben’s my friend, che ricostruisce le sensazioni durante e dopo il concerto dei Postal Service dell’amico Ben Gibbard. Colorato anche da un sax sinuoso (e da un solo di chitarra flamenco), è un brano che mostra come Benji sia capace anche di ironia. La musica ascoltata compare anche in Dogs (che cita i Pink Floyd mentre elenca varie esperienze sessuali a suon di blues) e I watched the film The song remains the same: qui si parla ovviamente dei Led Zeppelin, ma già che c’è Kozelek ricorda un amico d’infanzia che non c’è più.

In fondo, tutto Benji è così: ogni canzone qui è un pretesto per Kozelek per sviscerare le proprie sensazioni rispetto alla morte, e soprattutto per affrontare la più grande paura, il timore della perdita (vedi I can’t live without my mother love, con Will Oldam). Mark, ancora una volta, si mostra all’altezza del compito: trasformare il nocciolo fondamentale di un’esistenza, la malinconia, in arte purissima.

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