Da un disco che apre con un brano intitolato [Nowhere], non puoi che aspettarti che suoni esattamente come In roses dei Gem Club. Ovvero sospeso, spettrale, infinitamente malinconico. E anche bello, va detto. Perché la tristezza e la bellezza vanno spesso a braccetto, e Christopher Barnes, il songwriter titolare di questo progetto, è uno di quelli che conosce l’accordo segreto che unisce le due in un tenero abbraccio.
Nelle undici tracce, sfornate non in una camera da letto (come il precedente Breakers) ma nello studio (analogico) di John Vanderslice, a San Francisco, il pianoforte è protagonista. Note sparute, accompagnamenti minimi, minimali, ipnotici, che gli archi avvolgono come una coperta morbida (First week). Non manca, ovviamente, il tocco dell’elettronica (il battito riverberato di Braid, i droni celesiali proprio di [Nowhere]), ma nulla che sottragga neanche un briciolo di umanità a queste confessioni dolenti, sospese tra desiderio, rimpianto e morte (Soft season, dedicata allo scomparso attore di film gay per adulti Joey Stefano). La bellezza svanisce anche in Polly, che racconta di un amore che finisce mentre a colpi di arpeggi ipnotici, vocals dolenti ed archi annega in un deliquio degno dei Sigur Rós.
Bellezza e tristezza, proprio come quel libro di Yasunari Kawabata. Rispetto a Breakers, il sound complessivo ha una maggiore portata, un respiro più ampio da landa desolata. Basti ascoltare Idea for strings, per esempio, in cui tutto, dal piano riverberato ai cori avvolgenti, richiama un’idea di maggiore spazialità. Sicuramente, parte del merito va anche a Minna Choi della Magik*Magik Orchestra, con cui Barnes ha collaborato per gli arrangiamenti del disco.
Nel gruppo delle migliori di In roses, mettiamo anche Hypericum e QY2, che confermano l’amore di Barnes per il minimalismo e una certa vena sperimentale, malgrado poi alla fine la melodia sia centrale. Minuto dopo minuto, mano a mano che si procede nell’ascolto, è evidente come quello di In roses sia un mondo popolato di fantasmi. Certo a questo mood non è estranea la biografia di Barnes: per un periodo della sua vita, ha vissuto in una fabbrica di pianoforti abbandonata, a Boston, in cui, nel cuore della notte, dal vicinato gli arrivavano echi di una vita a base di litigate, party selvaggi e persino film porno.
In roses è dunque questo: una colossale eco, un concentrato di emozioni e intelligenza compositiva, con liriche impressionistiche ed un’interpretazione con il cuore in mano, ma senza autoindulgenza. Per come suona, andrebbe ascoltato con le cuffie nel cuore della notte. Ad ogni modo, un gran bel disco.