Dum Dum Girls – Too true

C’è una lettera di Nick Cave alla base dell’ispirazione per Too true, il nuovo album delle Dum Dum Girls. È la stessa Dee Dee Penny (al secolo, Kristin Gundred) a rivelarlo nella nota che accompagna la release.

Segnato dalla morte della madre, il 2011 non era stato un buon anno per lei: a testimoniare il disastro, un EP con un titolo inequivocabile come The end of the daze (“la fine della confusione”). Nell’estate del 2012, Kristin cominciava la scrittura dei nuovi brani: dalla finestra del suo appartamento, la vista del cielo di New York che suonava «come una promessa». In questo clima, conteso tra fragilità e voglia di guardare avanti, cascava a pennello la lettera succitata, con cui il Re Inchiostro chiedeva di essere esonerato da MTV da qualsiasi premio perché non si riteneva adatto alla competizione.

La necessità di cullare e proteggere la propria ispirazione, quasi «trattenendo il fiato» pur di non farla scappare via, è dunque alla base di Too true. Quello, e un mix dei soliti “classici” della cultura undegrdound: Cure, Siouxie, Baudelarie, Rimbaud, Lou Reed, Patti Smith, puntualmente elencati dalla stessa Gundred, a dimostrazione di un’ispirazione che, almeno da questo punto di vista, è matura abbastanza da non vergognarsi di evidenziare le proprie radici.

Sì, ma all’atto pratico come suona Too true? Pop, innanzitutto, a tratti persino più di Only in dream, che prendeva le distanze dal lo-fi simil punk del debutto, I will be. Le dichiarazioni di intenti adolescenziali, ora, si trasformano in progetto: Too true è un disco curatissimo nei dettagli, ruffiano. Come Cult of love, che su un beat martellante gioca con minimalismi tastieristici, accordi di chitarra granulosi (versante shoegaze) e twang western. O Rimbaud eyes, che annega i Cult in un languore da maudit («Every moon is atrocious / Every sun bitter / Sharp love has swollen me up»).

Ma se le citazioni sono evidenti e forse persino prevedibili (dite un nome del rock post-punk anni ’80 e lo troverete), il fascino delle tracce è un po’ meno scontato. Are you ok? è una ballata come ce ne sono tante, eppure funziona: la familiarità dei suoni non è così soverchiante, la malinconia traspare quieta, e fa i conti con un desiderio di purezza forse impossibile da trasformare in parole («What do you feel, / Can you put it in words?»).

Persino meglio fa Under these hands, che azzecca tutto, compreso un certo piglio epico che ben si collega al desiderio di libertà che traspare dai versi. Little minx e In the wake of you: aggiungiamo pure loro ai momenti migliori dell’album. Non Trouble is my name, che pretende un po’ troppo da se stessa (il beat groovy a metà pezzo, i droni) e tuttavia si chiude con una sensata accettazione dell’imperfezione della vita. Come a dire: la purezza non può esistere. Ma va bene: non fosse così, non avremmo dischi belli e imperfetti come questo, tra le mani.

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